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IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO

mercoledì 6 gennaio 2010

Il Pd in ostaggio del partito dell'odio

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La mia era la scoperta dell’acqua calda, una banalità suprema. Parlo di quando, in un paio di articoli e di interviste, dissi che il clima politico italiano non mi piaceva. Lo ritenevo troppo rovente, pervaso da pulsioni cattive che potevano sfociare in azioni violente. Era l’autunno del 2009. E qualche settimana dopo, a darmi ragione, ci fu l’attentato a Silvio Berlusconi. Colpito da un mattoide armato di un oggetto pesante, ma che avrebbe anche potuto essere una pistola.
Adesso siamo entrati nel 2010. Il Cavaliere, nel suo innato ottimismo, l’ha dichiarato l’Anno dell’Amore. Ma i primi segnali ci dicono il contrario. C’è un capo partito, Antonio Di Pietro, che garantisce di non aver sotterrato per niente l’ascia di guerra. E accusa il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per il suo messaggio di Capodanno. Che a sentire Tonino avrebbe «soffiato nelle vele della nave dei pirati», ossia del centrodestra. C’è il vice capo dello stesso partito, Luigi De Magistris, che propone di mandare in esilio il Cavaliere. Senza rispetto per il proprio rango di deputato europeo, questo ex magistrato chiede che Berlusconi venga imbarcato su un aereo, in compagnia del chitarrista Apicella e di «una graziosa signorina». E spedito in domicilio coatto alle isole Cayman.
Non stiamo parlando di ciarlatani senza potere, ma di due dirigenti di partito con un seguito ragguardevole di militanti e di elettori. Per di più, Di Pietro e De Magistris sono insuperabili in un mestiere rischioso per tutti, tranne che per loro. È quello del cinismo brutale, diretto a distruggere invece che a costruire.
Questa coppia di politicanti ha un unico interesse: incrementare il proprio fatturato elettorale. Celata sotto l’obiettivo dichiarato, esiste poi la concorrenza fra i due per la leadership dell’Italia dei valori. Uno scontro ancora coperto, ma che emergerà del tutto nel 2010. E li vedrà impegnati in un gara ributtante a chi spara la bestialità più bestiale.
Tutto questo potrebbe restare confinato all’interno dell’Idv se non esistesse un problema assai più grande. È quello del Partito democratico che non si libera dell’alleanza con Di Pietro & C. Confesso di guardare sbalordito all’inerzia dei capi del Pd. E alla loro riluttanza a troncare un rapporto che può soltanto condurre al disastro la ditta guidata da Pier Luigi Bersani. Precipitata in un abisso che mi rammenta un supplizio medioevale degno di essere spiegato.
Nel Medioevo i condannati alla pena capitale venivano soppressi in molti modi diversi, ma sempre crudeli. Uno dei più infami era il seguente. La persona destinata a morire veniva incatenata a un cadavere. Le catene erano molto strette, tanto che il corpo del vivo aderiva a quello del morto. A poco a poco, i vermi passavano dalla carogna alle membra del condannato e se le mangiavano. La fine arrivava con lentezza, tra sofferenze indicibili.
Dedico questo ricordo a Bersani. E gli domando se non si senta prigioniero di un Di Pietro capace soltanto di trasmettergli i vermi della faziosità, dello scontro continuo, di un populismo ben più violento di quello rimproverato a Berlusconi. Perché il segretario dei Democratici non manda al diavolo Tonino, De Magistris e l’intera compagnia dell’Idv? Che cosa aspetta? Di essere divorato del tutto dalla loro voglia di sfascio?
Eredità comunista
Una spiegazione penso di averla. Bersani, come Massimo D’Alema, il suo sponsor più importante, viene dal vecchio Pci. Aveva ventun anni quando Enrico Berlinguer, nel 1972, divenne segretario del Partitone Rosso. Tutto il suo percorso politico si è svolto dentro quella struttura forte di milioni di voti e di molte migliaia di militanti.
Chi osservava dall’esterno il Pci, come il sottoscritto che allora lavorava per il Corriere della Sera e poi per Repubblica, si chiedeva di continuo come mai quel pachiderma si muovesse con una lentezza estrema. Esitando a dirigersi verso l’unico approdo utile: l’autonomia dall’Unione Sovietica e una linea socialdemocratica.
Il motivo principale era chiaro. Il Pci stava inchiodato all’ossessione dell’unità del partito a tutti i costi. Guai a perdere per strada anche un solo compagno. Giancarlo Pajetta me lo spiegava così: «Un grande partito marcia con il passo dell’ultimo compagno della colonna». Ma la verità era un’altra.
Alle Botteghe Oscure sapevano bene di avere al proprio interno un quota importante di dirigenti e di militanti che non avrebbe mai accettato una svolta riformista. E che rifiutava con sdegno qualsiasi novità. Volete un esempio?
Nel giugno 1976, alla vigilia di una tornata elettorale, intervistai Berlinguer. E lui mi disse che preferiva stare sotto l’ombrello della Nato, ossia dell’Occidente, piuttosto che sotto quello del Patto di Varsavia. Bastò questa confessione per scatenare le ire dell’ala filosovietica. Rammento quanto mi replicò Armando Cossutta: «Ho letto la tua intervista. Enrico me la pagherà».
Assai di peggio accadde ad Achille Occhetto. Nell’autunno 1969, dopo la caduta del Muro di Berlino e lo sfascio dell’Urss, decise di cambiare nome al partito e di tentare l’approdo nella socialdemocrazia europea. Ci riuscì, ma perse una frazione importante del Pci: quella che avrebbe subito dato vita a un’altra parrocchia rossa, Rifondazione comunista.
Qualche lettore osserverà: che cosa c’entra tutto questo con l’alleanza fra il Pd di Bersani e la diepitrista Italia dei valori? C’entra, eccome! Bersani non è uno sciocco, conosce bene il proprio partito e misura tutte le difficoltà che incontrerebbe nel decidere di rompere con Di Pietro. Una scelta che, certamente, non ha lo stesso peso della rottura con la tradizione comunista compiuta da Occhetto. Ma anche questa gonfia di rischi.
Colombe e falchi
Il primo pericolo è rappresentato dal gruppo filo-Di Pietro esistente nel Pd. Sappiamo tutti che c’è. Ed è molto forte. Lo guidano due ex segretari: Walter Veltroni e Dario Franceschini. Sembravano destinati a un pensionamento anticipato. Invece sono ritornati in pista. Hanno fondato una corrente. Si danno da fare. Con la stessa ostinazione di un tempo. E si avvalgono di un pezzo da novanta: la ferrea Rosy Bindi, una ultrà della guerra senza quartiere a Berlusconi. Se dipendesse da lei, il famoso aereo immaginato da De Magistris sarebbe già partito per le isole Cayman. Con a bordo anche un bel po’ dirigenti democratici. Ritenuti troppo refrattari nella caccia a Silvio il Caimano. E fra questi, la ringhiosa Bindi sarebbe pure disposta a metterci il segretario Bersani. Colpevole di non aver esultato dopo l’assalto del mattoide Tartaglia al Cavaliere.
Il secondo pericolo che paralizza il leader del Pd è riassunto da una domanda: come reagirebbero gli elettori del partito a una rottura netta con Di Pietro? Purtroppo per Bersani, è un quesito senza risposta.
A scorno dei sondaggi, nessuno è in grado di valutare quale sia la forza attuale dei democratici. E che cosa accadrebbe il giorno che il Pd iniziasse una guerra contro l’estremismo dipietrista. Affermando che Tonino & C non possono essere alleati di un partito riformista. Un vecchio detto cinese recitava: finta sinistra, vera destra. Ecco una fotografia perfetta dell’Italia dei valori.
Ma un altro detto, questa volta italico, dice: chi non risica, non rosica. Bersani e i dirigenti che lo sostengono hanno il dovere di rischiare. Rompendo con Di Pietro, forse perderanno un po’ di elettori convinti che la lotta senza quartiere a Berlusconi sia l’unica strada possibile per la sinistra. In compenso ne acquisteranno altri, forse molti altri.
Per limitarmi a un esempio solo, penso ai tanti che non vanno più a votare. Nauseati da un conflitto fra i due blocchi che non trova una conciliazione, un compromesso onesto, una rinuncia alla guerra civile di parole. Questi elettori esistono, ne conosco molti. Soprattutto ne conosco bene uno: me stesso.
Ritornando al punto da dove sono partito, l’unico modo per evitare un clima politico in continuo peggioramento è un dialogo costruttivo fra maggioranza e opposizione. Le colombe dei due blocchi devono sconfiggere i falchi che hanno in casa. Confesso di non avere, in proposito, molte speranze. E temo che l’invito del presidente della Repubblica possa restare lettera morta.
Tuttavia non c’è altra strada utile. In caso contrario, vedremo affiorare con prepotenza pericolosa lo scontro avvistato da Libero nel numero di domenica. Se il partito dell’odio contagia la destra, siamo fottuti. Un bel libro di Giorgio Pisanò sulla guerra civile del 1943-1945 era intitolato: “Sangue chiama sangue”. Non vorrei mai scriverne uno identico, dedicato all’Italia del 2010. (Giampaolo Pansa- Libero-news.it)

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