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IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO

lunedì 30 aprile 2012

La storia della sepoltura di Renatino De Pedis

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Si scopron le tombe
Atti relativi alla morte e sepoltura di Enrico De Pedis
Il privilegio della cripta nella basilica di Sant’Apollinare a Roma costò al boss della Magliana un miliardo. “Piuttosto che al cimitero preferirei essere portato qui”, disse alla moglie il giorno del matrimonio.
“E dopo hanno detto con tanto candore / era un uomo di Dio, un benefattore” (da una ballata su Enrico De Pedis)
“La seconda è che mio marito resterà prigioniero di leggende metropolitane come la regina Maria Antonietta”  (Carla De Pedis)
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1. Antefatto. Foto: un motorino Honda Vision rovesciato, quasi addosso a una macchina parcheggiata davanti all’ingresso di un negozio. Un cadavere disteso sui sampietrini, coperto da un lenzuolo bianco. I piedi spuntano fuori, quasi sfiorano gli stivali di un carabiniere. Altri carabinieri. Folla di curiosi. Via del Pellegrino, numero 65, vicino Campo de’ Fiori. Venerdì 2 febbraio 1990. Ora di pranzo. Enrico De Pedis detto “Renatino”, 36 anni, prossimamente “Dandi” nella finzione letteraria e cinematografara e televisiva. E’ appena salito sul motorino, dopo essere stato in un negozio di antiquariato. I killer aspettavano su una moto. Pare fossero stati seguiti nei giorni precedenti da certi dei servizi segreti. Pare. Pare che questi dei servizi segreti non mossero un dito per impedire il delitto. Pare. Pare che De Pedis sapesse troppo cose. Così pare. Amen.
2. Il luogo / Basilica di Sant’Apollinare. Fondata da papa Adriano I vicino ai resti delle terme Neroniane-Alessandrine, “infra civitatem Roman non longe ab aecclesia sancti Apolinaris in templum Alexandrini” – dalla cronaca di un monaco dell’anno Mille. Titolo cardinalizio col nome di “Sant’Apollinare alle Terme Neroniane- Alessandrine” (attuale cardinale titolare S.E.R. Jean-Louis Tauran, Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa: nel suo stemma cardinalizio spicca il motto “Veritate ed Caritate”). Sant’Apollinare fu il primo vescovo di Ravenna (festa, il 23 luglio), martire – va da sé.  I primi occupanti furono monaci basiliani, fuggiti a Roma nel periodo delle persecuzioni iconoclaste a Bisanzio – e si racconta che seppellirono alcuni martiri bizantini nei sotterranei della chiesa. Tra il Cinquecento e il Settecento, fu parte del Collegio Germanico-Ungarico. L’antica basilica fu fatta demolire da Benedetto XIV e ricostruita da Ferdinando Fuga. A due passi da piazza Navona. Proprietà dell’Opus Dei.
3. Il luogo / La cripta della basilica. “Secondo un’analisi della cripta, la tomba di De Pedis si troverebbe in un piccolo ambiente, una stanza accessibile tramite una porta di ferro. Le chiavi del cubicolo sono in possesso solo del rettore e di Carla Di Giovanni, vedova De Pedis. (...) Poco distante, sempre nella cripta, è presente un ossario composto di resti che un tempo erano depositati senza alcun criterio nei cunicoli della basilica. Si tratta di un dedalo di strettoie, ora chiuse, che un tempo permettevano di raggiungere anche la sede della scuola di musica dove la Orlandi studiava flauto” (dal Mattino, 2/4/2012). Le ossa, forse pure quelle degli antichi martiri, che sfiorano le ossa di un capobanda,  che si confondono con quelle di un grande musicista barocco (vedi punto 5) – e insieme s’ammucchiano sui bordi di uno dei grandi misteri d’Italia. E lì la tomba del De Pedis Enrico, detto “Renatino”, mutato in “Dandi”. “Cifra tonda: un miliardo di vecchie lire. Ora che Vaticano e stato italiano hanno trovato l’intesa per lo spostamento (entro maggio) della tomba del boss ‘Renatino’ De Pedis dalla basilica, emergono dettagli sul prezzo pagato dalla vedova del capo della banda della Magliana, Carla Di Giovanni, per l’augusta sepoltura. Una fonte vicina alla Santa Sede (interpellata dall’Ansa) ha spiegato che davanti alle insistenze del rettore di Sant’Apollinare, Piero Vergari, “il cardinale Ugo Poletti, inizialmente reticente ad approvare la concessione, di fronte a una cifra così cospicua diede la sua benedizione”’ (Corriere della Sera, 26/4/2012). Finora si mormorava di una cifra intorno ai cinquecento milioni di lire.  “Ecco, magari non era proprio un benefattore per tutti. Ma per  Sant’Apollinare sì”. (Giulio Andreotti anni fa, al Corriere della Sera). Certo che sì. “Non si seppelliscano cadaveri nelle chiese, eccetto che si tratti di seppellire il Romano Pontefice oppure, nella propria chiesa, i Cardinali o i Vescovi diocesani anche emeriti”. (Can. 1242) Codice di Diritto Canonico. Libro quarto, “La funzione di santificare della chiesa”. Parte terza, “I luoghi e i tempi sacri”. Titolo, “I luoghi sacri” (cann. 1205 - 1243). Capitolo quinto, “I cimiteri”. Una tomba da Papa comunque, o di un Papa degno, per il “Renatino” che si muterà tra qualche anno nel “Dandi” (vedi punto 9, missiva mons. Vergari).
4. Il luogo / Zona non consacrata. Condizioni e posizionamento della cripta, secondo la testimonianza dell’attuale rettore di Sant’Apollinare, Monsignor Pedro Huidobro, anni 54, incardinato nella Prelatura della santa Croce e Opus Dei, medico chirurgo e teologo – titolo della sua tesi dottorale: “Naturaleza y función del Magisterio según la Const. Dogm. Dei Verbum”. Racconta Monsignor Huidobro (Repubblica, 8/10/2010): “Non dentro la basilica, ma in una cripta esterna, che poi è uno sgabuzzino piccolo, chiuso, umido, con una tomba a forma di tavola e la scritta ‘Enrico De Pedis’. Non è una cappella né un luogo di culto. Quell’area non è nemmeno consacrata (...) Non è neppure ben messa”.
5. La Madonna nascosta. Si segnale che nella basilica è presente un’immagine del XV secolo della Madonna tra gli apostoli Pietro e Paolo. Nel 1494, durante il passaggio delle truppe francesi di Carlo VIII, fu interamente ricoperta d’intonaco – a difesa della stessa dalla soldataglia che si era accampata proprio davanti a Sant’Apollinare. Ma poi, passate le truppe, preti e fedeli e Papi tutti se la scordarono, la Madre di Dio, e intonacata la tennero. Fu un terremoto, nel 1647, a far crollare l’intonaco che la ricopriva – e la Madonna riapparve, intatta e piena di colori. Da allora ci vede benissimo – testimone.
6. Il corpo perduto del musicista.  “In effetti, sappiamo che Carissimi è sepolto qui sotto, ma non sappiamo esattamente dove” (Monsignor Huidobro). Giacomo Carissimi (Marino, 18 aprile 1605 – Roma, 12 gennaio 1674), compositore italiano del periodo barocco. Prete dal 1637, nel 1630 aveva ottenuto il posto di maestro di cappella nella chiesa di Sant’Apollinare del Collegio Germanico-Ungarico. Per tutta la vita, non varcò mai i confini dello stato pontificio. Alla sua morte, fu inumato a Sant’Apollinare, tra le cui mura aveva trascorso quasi l’intera sua esistenza. Della sua tomba si persero definitivamente le tracce quando la chiesa fu ricostruita secondo il progetto del Fuga, tra il 1742 e il 1748. Tale appariva ai contemporanei il compositore svanito tra le fondamenta di Sant’Apollinare: “Assai frugale nelle sue vicende domestiche, molto nobile di maniere nei confronti di amici e conoscenti, di alta statura, magro e incline alla melanconia...”. Tra i suoi oratori in latino figura un opportuno “Vanitas vanitatum”. Nella basilica anche il corpo di monsignor Antonio Palombi, Cappellano Segreto e Crocifero di Pio VI. Ecco, quello come sepolto ci sta benissimo.
7. Colloqui. Enrico De Pedis e Carla Di Giovanni si sposarono a Sant’Apollinare nel 1988. Disse lui a lei: “Il giorno che mi ‘tocca’, piuttosto che al cimitero mi piacerebbe essere portato qui...”. Riferì lei agli agenti della Dia (Corriere della Sera): “Me lo disse, con fare tra il serio e il faceto, proprio il giorno del matrimonio”.
8. Di Sua Eminenza, Vicario del Vicario.  “Era un uomo semplice, al quale la vita pubblica non si addiceva. Con i giornalisti era insieme timido e drastico, si faceva un nemico a ogni frase. Ma era molto migliore in privato: un prete serio, un uomo leale. Lascia un grande rimpianto tra i preti di Roma. Sapeva tante cose, anche riservatissime: aveva collaborato con tre Papi, partecipato a due conclavi, vissuto a stretto contatto con la Curia romana per più di trent’anni, presieduto la Cei. Ma non raccontava nulla. Due anni addietro aveva deciso di scrivere un libro di ricordi. Cercava un giornalista che l’aiutasse a cercare un linguaggio adatto: ‘Ho vissuto tante vicende e ho pensato di raccontarne alcune, forse può essere utile, domani’. Ma quell’autobiografia poi non l’ha voluta pubblicare”. (Luigi Accattoli, Corriere della Sera, 26/2/1997, in occasione della morte del cardinale Poletti: a 82 anni, per infarto). Di sicuro, l’opera sarebbe stata utilissima.
9. Missive. Lettera dell’allora rettore Monsignor Piero Vergari (che celebrò anche il funerale dell’assassinato) a Sua Eminenza il cardinal vicario Ugo Poletti (data: 6 marzo 1990, 32 giorni dopo l’esecuzione a via del Pellegrino): “Si attesta che il signor Enrico De Pedis nato in Roma – Trastevere il 15/05/1954 e deceduto in Roma il 2/2/1990, è stato un grande benefattore dei poveri che frequentano la basilica ed ha aiutato concretamente tante iniziative di bene che sono state patrocinate in questi ultimi tempi, sia di carattere religioso che sociale. Ha dato particolari contributi per aiutare i giovani, interessandosi in particolare alla loro formazione cristiana e umana. In fede. Mons. Piero Vergari, rettore”. Quattro giorni dopo, il 10 marzo, 36 giorni dopo l’esecuzione a via del Pellegrino, il cardinal vicario, rapidamente superate le giustificatissime iniziali reticenze sopra richiamate (vedi punto 3), firma la necessaria  autorizzazione: “Si dichiara che da parte del Vicariato nulla osta, per quanto è di sua competenza, alla tumulazione della salma di Enrico De Pedis, deceduto il 2/2/1990, in una delle camere mortuarie site nei sotterranei della Basilica di Sant’Apollinare a Roma” – e comunque niente funerali, per evitare “eccessivi clamori”. Così il 24 aprile la famiglia De Pedis ottiene “dall’autorità comunale l’autorizzazione al trasporto della salma da Roma alla Città del Vaticano” – pur avendo ufficialmente accertato (il ministro Cancellieri rispondendo a un’interrogazione parlamentare di Walter Veltroni) che Sant’Apollinare non è territorio vaticano.
10. Altre missive. Spiegò la signora De Pedis: “I lavori di costruzione del sepolcro costarono circa 37 milioni e furono eseguiti da una ditta di fiducia del Vaticano”. Missiva di monsignor Vergari al cardinal vicario Poletti: “Il lavoro di sepoltura sarà fatto da artigiani e operai specializzati in questo settore, che hanno già lavorato per la tumulazione degli ultimi Sommi Pontefici”. Missiva del cardinal vicario Poletti a monsignor Vergari (10/1/1991), su carta intestata “Vicariato di Roma”: “Caro don Piero, ho ricevuto il generoso assegno per l’Opera delle Vocazioni Sacerdotali a Roma. Grazie per il tuo inesauribile entusiasmo ecclesiale e per il tuo generoso impegno. Ho consegnato l’assegno all’Opera. Con affetto ti saluto e ti benedico, tuo Ugo card. Poletti”. E comunque, mai venne meno, anche dopo la sepoltura di De Pedis a Sant’Apollinare, la stima del prelato per il monsignore. Ancora una lettera autografa del cardinale, non più vicario di Sua Santità, su carta intestata “Patriarcale Basilica di Santa Maria Maggiore” (28/10/1995): “Caro don Piero, ho ricevuto con piacere e con ammirazione la copia dello Statuto dell’Associazione degli Oblati della Regina Apostolorum. Vi ritrovo tutto il tuo cuore e lo zelo per le vocazioni sacerdotali. Dio e la Madonna benedicano te e la tua opera che già ha dato preziosi frutti. Mi unisco alla tua preghiera e di cuore ti saluto benedicendo. Tuo aff.mo Ugo card. Poletti”. Entrambe le lettere, e molti altri documenti – compresa una foto dell’ex rettore di Sant’Apollinare insieme a Benedetto XVI – sono pubblicate nel sito web di monsignor Vergari, che si è ritirato in pensione a Sigillo, in Umbria. Inseguito dalle telecamere di “Chi l’ha visto?”, (vedi punto 12) l’anziano monsignore, ora anni 86, si è sempre rifiutato di rispondere. “Ho scritto tutto nel mio sito”. E pure: “Non ho fatto dichiarazioni in passato, non le faccio adesso e non le farò mai”. E  che “dei morti non si deve dire altro che bene”.
11. Il  sito del monsignore. Ha dunque scritto monsignore – sotto un trittico composta da un Cristo crocifisso, san Rinaldo  vescovo di Nocera Umbra e l’immagine della Madonna che fu occultata con l’intonaco a Sant’Apollinare: “Nel carcere mai ho domandato a nessuno perché era là o che aveva fatto. Tra le centinaia di persone incontrate dei più diversi strati sociali, parlavamo di cose religiose o di attualità: Enrico De Pedis veniva come tutti gli altri, e fuori dal carcere, ci siamo visti più volte: normalmente nella chiesa di cui ero rettore, sapendo i miei orari e altre volte fuori, per caso. Mai ho veduto e saputo nulla dei suoi rapporti con gli altri, tranne la conoscenza dei suoi famigliari. Aveva il passaporto per poter andare liberamente all’estero. Mi ha aiutato molto per preparare le mense che organizzavo per i poveri. Quando seppi dalla televisione della sua morte in via del Pellegrino, ne restai meravigliato e dispiacente”. E pur dispiacente il rettore, come andò che il cadavere finì nei sotterranei della sua chiesa? “Qualche tempo dopo la sua morte i famigliari mi chiesero, per ritrovare un po’ di serenità, poiché la stampa aveva parlato del caso e da vivo aveva espresso loro il desiderio di essere un giorno sepolto in una delle antiche camere mortuarie, abbandonate da oltre cento anni, nei sotterranei di S. Apollinare, di realizzare questo suo desiderio. Furono chiesti i dovuti permessi religiosi e civili, fu restaurata una delle camere e vi fu deposto”. E così “parce sepulto” – invoca e vorrebbe il monsignore.
12. Agenzia Ansa, anno 1987. “La Banda della Magliana è stata direttamente o indirettamente collegata con la maggior parte dei principali episodi di criminalità organizzata avvenuti a Roma: traffico di stupefacenti, eversione neofascista, omicidi, controllo del gioco d’azzardo, rapine, sequestri di persona, clamorose evasioni...”.
13. Giornalisti e giornalismi. Per alcuni anni, il segreto di Sant’Apollinare restò occultato nei suoi sotterranei. Sette anni per la precisione. E’ il 9 luglio 1997. Sul Messaggero Antonella Stocco racconta per la prima volta pubblicamente la storia di quella curiosa tomba nella bellissima chiesa settecentesca. Interrogazioni in parlamento. La cripta viene chiusa al pubblico. Cala di nuovo il silenzio. Luglio 2005. Telefonata anonima alla redazione di “Chi l’ha visto?”: “Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso andate a vedere chi è sepolto nella cripta della basilica di Sant’Apollinare, e del favore che ‘Renatino’ fece al cardinale Poletti all’epoca...”. Un’altra giornalista, Raffaella Notariale, riuscì finalmente a trovare le foto della tomba e delle lettere firmate dal cardinale Poletti e dal rettore Vergari (vedi punto 8). Arrivò in redazione un biglietto anonimo: “Lasciate in pace Renatino”. Ma da allora tutti i fantasmi di questa storia non hanno più lasciato l’inaccessibile cripta. E come se fosse un’altra orrenda, qualsiasi Avetrana mediatica, la gente fa ressa nella basilica – e vuole la tomba di De Pedis, solo la tomba, non la Madonna che restò con l’intonaco sugli occhi per oltre un secolo e mezzo. Spiega monsignor Huidobro: “Mi disturbano soltanto quelli che vengono qui e dicono di voler vedere la sua tomba. Non vengono a pregare, ma solo a fare i turisti”.
14. Pentimenti / ripensamenti. Comunicato del Vicariato di Roma (3/10/2005): “Non si ritiene d’altronde di dover procedere all’estumulazione in quanto l’autorizzazione concessa dal Cardinale Vicario oltre che per il rispetto che si deve comunque ad ogni defunto”. Comunicato del Vicariato di Roma (4/7/2010): “Nulla osta da parte dell’Autorità ecclesiastica che, su richiesta dell’Autorità giudiziaria italiana competente, la tomba del Signor De Pedis possa essere ispezionata. Nulla osta a che, su richiesta dell’Autorità giudiziaria italiana competente o della famiglia del Signor De Pedis, la salma possa essere traslata”. Dichiarazione di Padre Lombardi, portavoce del Vaticano (14/4/2012): “Si ribadisce che da parte ecclesiastica non si frappone nessun ostacolo a che la tomba sia ispezionata e che la salma sia tumulata altrove, perchè si ristabilisca la giusta serenità, corrispondente alla natura di un ambiente sacro”. Monsignor Pedro Huidobro, rettore: “Se serve a togliere ogni dubbio, ben vengano l’apertura e lo spostamento della tomba da Sant’Apollinare”.
15. Opposte fazioni. Esiste una specifica pagina Facebook: “Via il criminale De Pedis dalla chiesa di S. Apollinare”. Esistono migliaia di commenti su Internet. Ovviamente, la maggior parte è contro la permanenza del cadavere di “Renatino” nei sotterranei della “maestosa basilica settecentesca” (Corriere della Sera). Ma ve ne sono altri che si schierano a favore – effetto del gran successo mediatico del “Dandi” narrato e recitato e musicato (vedi punto 15)? “Spero che non spostino il feretro, farlo sarebbe una mancanza assoluta di civiltà e di rispetto per il morto e i suoi cari”. “Lui pur essendo un criminale ha sempre avuto dei valori. Almeno i morti lasciateli stare”. “Lasciate riposare in pace il povere Renatino De Pedis… Lui e stato un benefattore… Ha aiutato persone ke nemmeno conosceva – Lui e un signore… Lo stato kuesto non lo fa… Comunque ora lasciamolo riposare in pace e speriamo che sta tra le braccia di un angelo… Xkè se lo merita ciao Renatino (Dandi).”. “Lasciate stare i morti che è meglio e lasciatelo dove e che se lo merita il re di Roma...”.
16. Canzone per De Pedis. “Arrivederci Roma scusa se / ti ho ricordato che si muore / arrivederci giovinezza mia / Trastevere di brutte cose / ricordati di me / Anche se ho fatto certe cose che / amplificano la mia vanità / se le tue mani mi volessero / le sposerei tra le mie mani / ti direi che questa vita no / non è possibile, non è possibile” (Canzone della band milanese degli “Amor Fou”, nel cd “I Moralisti”. Titolo: “De Pedis”. “Abbiamo trattato De Pedis come ci è stato raccontato da chi lo conobbe, come un uomo devastato da un conflitto irrisolto fra bene e male, la cui morale distrusse molte vite compresa la sua” (Alessandro Raina, frontman degli “Amor Fou”).
17. L’inventore di “Dandi”. “L’apertura della tomba di Sant’Apollinare difficilmente potrà portare, a mio avviso, a una soluzione. Difficilmente si troverà qualcosa di diverso”. (Giancarlo De Cataldo, autore di “Romanzo criminale” – lo scrittore che, volendo o non volendo, del mortale “Renatino” De Pedis ha fatto un quasi immortale “Dandi”).
(La tomba nella cripta di Sant’Apollinare ha in ogni modo i giorni contati. Il cadavere incandescente di “Renatino” troverà definitiva sistemazione – quello del “Dandi” chissà quanto ancora vagherà. Comunque lontano e fuori da un sarcofago che era degno piuttosto dei Sommi Pontefici. A Sant’Apollinare, lo stesso, molte cose restano da fare: restauro della Pala d’Altare, restauro del Coro (Presbiterio), restauro Cantoria, restauro Confessionai… Toccherà ai fedeli, adesso e più che mai, onorevolmente concorrere alla maggior gloria).
(di Stefano Di Michele - IL FOGLIO.it)
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Lasciate riposare De Pedis
Malandrino in vita, degno di rispetto da morto, perfino in chiesa

E’ universalmente apprezzato il senso dell’ironia di quell’attore antico che volle fare incidere sulla sua lapide funeraria un ultimo motteggio: “Sono morto tante volte, ma mai così”. Renatino De Pedis non era un attore, o se mai lo era a modo suo mentre calcava le scene del fin troppo celebre romanzo criminale della Magliana. Eppure avrebbe diritto a pronunciare le stesse parole, dall’aldilà (o da laggiù, a seconda delle preferenze), ora che un malinteso senso delle convenienze impadronitosi del Vaticano sta per sloggiarlo dalla cripta di Sant’Apollinare in Roma. Nessuno può scegliersi i propri morti, ma c’è facoltà di decisione su come assicurare loro degna (o indegna) sepoltura. Deve perciò esserci una ragione non banale se qualcuno, per corrispondere alla sentita richiesta di un quasi epico malvivente, stabilì che potesse riposare per sempre sotto l’altare di quella chiesa; luogo peraltro nient’affatto casuale, perché degno fin dal medioevo di eroi eponimi e benefattori cittadini. Proprio a questo concetto si richiamò a suo tempo, obliquamente certo del fatto suo, Giulio Andreotti: “Ecco, De Pedis magari non era proprio un benefattore per tutti, ma per Sant’Apollinare sì”. Non più, evidentemente.
Su De Pedis e sul suo singolare legame con ambienti vaticani grava un rumore di fondo durevole, accresciuto dalle legittime aspettative della famiglia di Emanuela Orlandi – il mistero della sua scomparsa avrebbe a che fare con il contenuto della tomba del boss della Magliana – e si addensano tutti i caratteri del giallo a tinte nerissime. Quale segreto indicibile trapelerà da quel sepolcro, una volta scoperchiato? Macabra scena, anche soltanto a immaginarsela. Pratica altomedievale che richiama il famigerato “Sinodo del cadavere”, il processo inflitto alla salma papale di Formoso, rivestita dei paramenti per l’occasione e issata su di un trono. In qualità di morto, Formoso non ebbe grandi chance di schivare la condanna all’indegnità. Sorte simile incalza De Pedis. Alla turba degli inconsolabili, dei moralisti e dei necrofili non basterà l’apertura della tomba, poiché una condanna non scritta ma già recitata in pubblico vuole che i resti finiscano altrove, lontano da un luogo che qualcuno s’illude così di purificare.
Doppio errore, se non pure ingiustizia. Ammesso che De Pedis si fosse comprato in Sant’Apollinare il suo segmento di beatitudine eterna, il fatto è passato in giudicato dacché la falce di Saturno l’ha messo tra le cose che non possono non essere accadute: nemmeno il tempo può cancellarle. Se invece quella compravendita non fosse avvenuta, resterebbe comunque un mucchio di ossa sulle quali l’accanimento è certo peggio della venerazione, della curiosità o della paura.
(IL FOGLIO.it)
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Storie di santi e di banditi, di sepolti e riesumati

Soddisfatti o riesumati. Sarebbe un ottimo slogan per un’impresa di pompe funebri, e sfido chiunque a dire che sia fuor di tono: a cospetto della morte nulla val meglio dell’umor nero dei surrealisti, che è poi stretto parente dell’atra bile dei malinconici, e quella materia densa e scura ciascuno la estrae e la raffina come può. Soddisfatti o riesumati, ed è meglio per tutti, perché è dalle mezze sepolture che saltano fuori i guai peggiori – i non spirati, i vampiri, gli zombie, i revenant. Ecco, perché i revenant la smettano di rivenire occorre che siano morti per bene, che abbiano le coperte rimboccate, e che tutti siano concordi nel sigillare il feretro. Ed è qui che cominciano i problemi.
“Non potremmo fare almeno una riunione che non finisca con la riesumazione di un cadavere?”, si domanda esasperato il sindaco Quimby di Springfield, la città dei Simpson. E se questo è vero per un’immaginaria cittadina degli Stati Uniti, paese dove in fondo si riesce a convenire su una versione comune della storia, a mettere qualche punto fermo, figuriamoci in Italia, dove non c’è episodio che non sia oggetto di eterna contesa avvocatesca, non c’è contoversia storica che abbia un approdo certo, non c’è morto che muoia davvero. Qui riesumare è una triste necessità, e oltretutto il luogo del cadavere – quell’hic jacet che, diceva Michel Serres, ricorda tanto il Dasein heideggeriano, il dato elementare dell’“esserci” – è l’ultimo appiglio del senso di realtà, o se più piace il grado zero degli accadimenti, prima che vi si formi attorno la ragnatela delle interpretazioni.
Oggi tocca a De Pedis come ieri è toccato a schiere di santi, poeti, navigatori, banditi e assassini, e al di là della vicenda un po’ meschina della traslazione, c’è da capire che cosa il magistrato speri di trovarvi (incidentalmente, capiamo bene che nessun inquirente disporrà mai, quand’anche fosse necessario, l’esumazione di Enzo Tortora: vi troverebbe – specchio intollerabile – la copia della “Storia della Colonna Infame” con cui quel grand’uomo volle farsi seppellire). Ma il problema non sono gli esumati, che portano pazienza – più di tutti Teresa d’Avila, continuamente dissepolta e saccheggiata dai cacciatori di reliquie: chi ne prese una mano, chi un braccio, chi una mandibola, si racconta perfino che un chierico riuscì a trafugarne un mignolino nascondendoselo in bocca. Il problema di tutta evidenza sono gli esumatori, che per quanto seri siano i loro intendimenti e importanti i loro compiti, non sfuggono mai a una nota di umor nero. Non c’è bisogno di rievocare Gene Wilder e Marty Feldman con la loro vanga sotto la pioggia, in “Frankenstein Junior”. Le cronache offrono almeno due casi dove la realtà supera l’immaginazione comica.
Il primo riguarda il poeta e pittore Dante Gabriel Rossetti e la sua amante Elizabeth Eleanor Siddal detta Lizzie, che sposò nel 1860. La poveretta, già cagionevole di suo, fu la protomartire del preraffaellismo. Gli artisti ne ammiravano la bellezza diafana e i capelli rossi, Sir John Everett Millais la volle come modella dell’Ofelia annegata tra i salici, e a furia di stare immersa in una vasca come un baccalà Lizzie si beccò la polmonite. Morì nel 1862 per un’overdose di laudano, ma nemmeno allora la lasciarono in pace, perché il vedovo inconsolabile aveva sepolto con lei l’unico manoscritto delle sue poesie d’amore. Quando l’astro di Rossetti cominciò a eclissarsi, il suo agente ebbe la bella pensata di ripescare le poesie nel cimitero di Highgate. E così, a mezzanotte di un giorno del 1869, la tomba fu riaperta, il manoscritto recuperato, disinfettato da un medico e dato alle stampe. Pochi anni prima Baudelaire (“Une charogne”) aveva detto di serbare nei versi la forma e l’essenza divina dei propri “amori decomposti”. Rossetti deve averlo preso un po’ troppo alla lettera.
Cambiamo secolo e scenario. Siamo in America, a metà degli anni Settanta. Errol Morris, regista di documentari, fa ricerche in lungo e in largo sui serial killer, e queste ricerche lo portano a spendere qualche mese a Plainfield, nel Wisconsin, la città d’origine di Ed Gein, il criminale che fornì il prototipo a “Psycho” di Hitchcock. Oltre a uccidere un po’ di persone, Ed Gein aveva riesumato cadaveri per farne gli usi più vari, specie nell’ambito dell’arredamento. Morris si accorse che le tombe che Ed Gein aveva profanato formavano un cerchio, e che al centro c’era la tomba della madre. Che avesse dissepolto anche lei? Quell’altro geniaccio di Werner Herzog decise di tagliare la testa al toro: “Un bel giorno gli ho detto: ‘Errol, lo saprai solo se torni a Plainfield a scavare tu stesso. Se la tomba è vuota, Ed Gein è stato lì prima di te’. Decidemmo che saremmo andati a scavare insieme, ed eravamo piuttosto eccitati all’idea”. Herzog è pronto, ma attende invano: “Ero lì ad aspettare Errol, ma lui si è tirato indietro e non si è mai presentato. In seguito ho capito che è stata la cosa migliore. A volte è molto meglio lasciare le domande senza risposta”.
E, aggiungeremmo, risparmiare i sepolti. Scherza con gli esumatori, ma lascia stare gli esumati.
(di Guido Vitiello - IL FOGLIO.it)
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Le reliquie di Renatino De Pedis
La mistica del “mistero italiano” finisce in farsa. Veltroni lo fa strano

Dopo l’ispezione nella cripta di Sant’Apollinare, ritrovato il corpo di De Pedis (pure in buone condizioni: Renati’, qui stavi?), pronto per essere portato via da lì,  per qualche ora è sorto un intrigante mistero intorno a una cassetta di ossa: vuoi vedere che… L’Ansa, per prima, s’affretta ad assicurare che la suddetta cassetta sta “all’interno della bara”, ossa con cadavere, insomma. Con gran rapidità, Walter Veltroni s’affretta a dichiarare: “La scoperta di una cassetta contenente delle ossa nella bara di De Pedis conferma la stranezza…”, e via così. Titola l’home page del Sole 24 Ore: “Nella bara di De Pedis cassetta con resti di ossa che potrebbero non appartenere al boss”. Potrebbero. Man mano la cosa si fa più indefinita. Da: ossa sì, ma di chi?, a ossa sì, ma di quando? Dalla reliquia del boss alla reliquia abusiva con cui, in modo condominiale, lo stesso condivideva la bara.
Da Repubblica tv un’animosa conduttrice si collega con Massimo Lugli, cronista di nera di chiara fama. “Resti di altre persone nella tomba di De Pedis… Lugli, cosa dici?”. E Lugli: “Dico che è una notizia falsa…”. Appunto. Così la cassetta con le ossa dal convivente con De Pedis si sposta lì intorno, nei paraggi, nelle vicinanze, comincia a vagare di cronaca in cronaca. Corriere: “Trovati altri resti nella nicchia”. Repubblica: “Indagini su altre ossa”. Agi.it: “Altre ossa nella cripta di De Pedis”. Essendo stata per secoli un ossario (è raccontato nel sito ufficiale della basilica), ci si poteva arrivare senza tanto spreco parainvestigativo. Ieri in Sicilia hanno scoperto la tomba di Minosse. Forse. Casomai trovassero altre ossa vicino alle sue, potrebbero essere del Minotauro. Forse.
(IL FOGLIO.it)
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18 giugno, 18:27
Corpo De Pedis traslato da Sant'Apollinare

ROMA - Il corpo di Enrico De Pedis, il boss della banda della Magliana il cui nome e' entrato nella vicenda della scomparsa di Emanuela Orlandi, e' stato traslato questa mattina dalla basilica di Sant'Apollinare a Roma. La moglie e i fratelli di De Pedis sono entrati in chiesa intorno alle 7 da una porta laterale. La bara di zinco e' stata trasportata fuori dalla chiesa intorno alle 8 e portata via da un furgoncino delle pompe funebri.
Il corpo di De Pedis era stato tumulato nella cripta della basilica per volere della famiglia e dopo aver ricevuto il nulla osta dell'allora vicario di Roma cardinale Poletti. De Pedis morì in una sparatoria a Campo de Fiori il 2 febbraio 1990. Il suo nome entrò nella vicenda Orlandi a seguito di una telefonata giunta nel 2005 alla trasmissione 'Chi l'ha vistò che suggeriva di andare a vedere chi fosse sepolto nella cripta di Sant'Apollinare per capire la verità sulla scomparsa della ragazza. I magistrati romani titolari dell'inchiesta sul caso Orlandi hanno disposto poche settimane fa la ricognizione sui resti di De Pedis avvenuta il 14 maggio scorso. Visto il buono stato di conservazione è stato possibile identificare immediatamente che si trattava del boss della banda della Magliana come poi confermato anche dalle impronte digitali.
(ANSA.it)
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Verità sulla morte del Duce: Mussolini si avvelenò

Parlano due importanti testimoni: Benito, ormai in coma, fu poi finito dal carceriere Giuseppe Frangi
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A 67 anni dalla morte di Benito Mussolini e di Claretta Petacci, ci sembra che di questa storia si sappia tutto e nulla allo stesso tempo. Tutto, perché quanto accadde a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como, il 28 aprile 1945, è stato sviscerato in mille modi, con decine di ipotesi diverse sugli accadimenti: ogni segmento di quella storica giornata  è stato smontato, analizzato e rimontato, ogni protagonista è passato al vaglio di documentate rievocazioni. Al tempo stesso, non se ne sa nulla, in quanto ci si è accorti che, man mano che i materiali di studio si accumulavano, la verità su quella vicenda appariva destinata a divenire, una volta di più, sfuggente. 
Testimonianze - Le testimonianze lacunose e contraddittorie dei protagonisti, le falsificazioni operate dal Partito comunista, che ha coperto i responsabili della morte del Duce deviando l’attenzione dell’opinione pubblica dai veri giustizieri, e perfino le evidenze deludenti dei riscontri autoptici eseguiti sul cadavere di Mussolini, stanno a dimostrare che la verità è ben lungi dall’essere acquisita. La versione ufficiale narra che Mussolini e la Petacci furono abbattuti dai mitra del commando partigiano, venuto da Milano, alle 16,10 del 28 aprile, davanti al cancello di Villa Belmonte. I partecipanti all’esecuzione sarebbero stati tre: il colonnello “Valerio”, alias Walter Audisio, Aldo Lampredi “Guido”, e Michele Moretti. Come si sa, i protagonisti, non soltanto si sono contraddetti tra di loro, ma anche presi singolarmente hanno tramandato diverse versioni dei fatti. È il caso di Audisio, che ha dettato tre o quattro successivi racconti, che evidenziano parecchie incongruenze.
Opera collettiva - Il risultato di tutto ciò è che, con macroscopica evidenza, il Partito comunista, dal cui seno è nata la missione esecutiva di Dongo, ha volutamente confuso le carte, in modo tale da impedire il riconoscimento pieno della verità. In altre parole, il Pci, favorito dall’intelligence britannica nella conduzione dell’operazione speciale mirante a sopprimere il Duce, ha voluto descrivere quell’epilogo cruento, più come opera collettiva di un suo gruppo scelto che non come il risultato di singoli apporti individuali. Chi scrive, pur legato a un vincolo di riservatezza nei confronti di una propria fonte, può qui anticipare di aver potuto stabilire in modo certo che il generale Raffaele Cadorna, comandante supremo del Cvl (Corpo volontari della libertà), l’organo di direzione militare della Resistenza, fu a pieno titolo determinante nell’adottare la deliberazione - fortissimamente voluta dal Pci - di passare per le armi sommariamente Mussolini. Ciò, naturalmente, appare in contraddizione con le stesse dichiarazioni rese da Cadorna nelle sue memorie, in cui afferma di essersi limitato ad aderire alla decisione presa dai comunisti di uccidere il Duce, avallandola. Negli ultimi anni, ha preso consistenza una nuova teoria, quella del suicidio che il capo del fascismo si sarebbe procurato attraverso una capsula di cianuro di potassio occultata in una protesi mobile. Può essere stato quell’evento imponderabile, cioè lo stato comatoso autoindottosi dal Duce, durante le prime ore della mattina del 28 aprile, mentre si trovava nel casolare dei contadini De Maria, ad aver fatto volgere la situazione verso l’epilogo cruento? In altre parole: è possibile che su Mussolini, ancora vivo, in preda a convulsioni, avesse esploso alcuni colpi di grazia uno dei due carcerieri che montavano di guardia a casa De Maria? Facciamo un passo indietro. Alle prime ore del 28 aprile 1945, Mussolini viene scortato da Dongo, verso un nuovo nascondiglio. Luogo scelto per il prigioniero, al quale si è unita Claretta Petacci, è un rustico situato in località Bonzanigo di Mezzegra. I proprietari dell’abitazione colonica, i coniugi Giacomo e Lia De Maria, fanno accomodare i due ospiti in una stanza al secondo piano, con finestra. 
Sdraiato a letto - Mussolini si corica sul lato destro del letto matrimoniale, mentre Claretta occupa il lato opposto. Si tratta di un particolare non secondario, in quanto alcuni dei colpi ricogniti sul cadavere del Duce - in particolare, uno al fianco, in posizione difficilmente spiegabile nell’ipotesi di un’esecuzione avvenuta con Mussolini in stazione eretta, con gli esecutori posizionati frontalmente - lo attinsero sul lato destro, con traiettoria dall’alto il basso e da sinistra a destra: come se l’esecutore gli si fosse avvicinato mentre si trovava ancora sdraiato a letto.
La pratica del suicidio, con fiala o capsula letale, fu molto adottata dai capi dei regimi amici. Oltre a Hitler, che si sparò mentre masticava una capsula di cianuro, si uccisero con il veleno Goebbels (con la moglie Magda e i sui figli), Goering e Himmler. Anche Pierre Laval, capo del governo collaborazionista di Vichy, tentò di uccidersi con una fiala venefica, ma gli furono praticate diciassette lavande gastriche allo scopo di condurlo ancora vivo davanti al plotone di esecuzione. Quanto al Duce, sappiamo che tentò il suicidio, nell’estate del 1943, durante la prigionia a Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Se anche Mussolini a Mezzegra fece ricorso al veleno, sicuramente il suo carnefice fu il partigiano Giuseppe Frangi, “Lino”, che con Guglielmo Cantoni, “Sandrino”, era di guardia davanti alla stanza da letto dei due prigionieri. “Lino”, nei giorni successivi al 28 aprile, rivendicò con sicumera il suo ruolo di giustiziere e fu a sua volta assassinato il 5 maggio da elementi partigiani comunisti. Frangi potrebbe avere esploso colpi di grazia sul rantolante dittatore. Due testimonianze, sulle quali merita soffermarsi, convergono nell’indicare la concreta attendibilità della pista del suicidio. La prima è di Giuseppe Turconi, 90 anni, che apprese dalla viva voce di Lia De Maria la verità sulla morte del Duce. 
Confidenze segrete - Turconi vive tuttora a Villaguardia, il paese del partigiano Frangi, e custodisce da quasi settant’anni le confidenze ricevute: «Una decina di giorni dopo i fatti, mi recai a Mezzegra insieme a mio fratello e a un mio cugino. Era da poco morto anche il “Lino” e la versione dell’accaduto, che alludeva a un incidente, mi lasciò parecchio perplesso. Andammo a casa De Maria a parlare con la signora Lia che ci disse che, quel 28 aprile, aveva preparato qualcosa da mangiare per Mussolini e la Petacci e che il Duce le aveva chiesto di assaggiare la pietanza perché temeva di essere avvelenato. Poi, qualche ora più tardi, quando capì che per lui non c’era più nulla da fare, Mussolini ingerì del veleno inserito nella capsula di un dente. La De Maria disse che era successo tutto nella camera da letto in cui avevano pernottato. Seppi anche che la Petacci era stata uccisa in un secondo tempo, qualche ora dopo, in un prato sottostante la chiesa di Mezzegra, in frazione Bonzanigo».  Turconi riferisce dunque che l’esecuzione di Claretta sarebbe avvenuta successivamente a quella di Mussolini e non sembra prestare attenzione a un dettaglio del suo racconto, che introduce un’apparente contraddizione. Perché, se Mussolini aveva intenzione di togliersi la vita, temeva di essere avvelenato dal cibo? O forse giunse alla determinazione di uccidersi solo in un momento successivo? La seconda testimonianza è ancora più significativa, perché proviene da Elena Curti, figlia naturale di Mussolini che fu accanto al padre durante le ore dell’epilogo di Dongo. La donna, oggi novantenne, ricevette in proposito delle notizie dal brigadiere della caserma dei carabinieri di Dongo, dove fu tenuta prigioniera dopo il 28 aprile. Si tratta di Ettore Manzi, classe 1908, protagonista defilato di tante vicende drammatiche che presero corpo a Dongo dopo l’esecuzione dei gerarchi. Fui lui, infatti, a salvare la vita a decine di prigionieri fascisti detenuti nella caserma dell’Arma (tra cui la stessa Curti), ponendo fine alla mattanza condotta dai partigiani rossi sulla scia dell’euforia della vittoria sul fascismo.
La versione di Manzi - Racconta Elena Curti: «La versione del suicidio di Mussolini me la riferì Ettore Manzi, verso la fine degli anni Cinquanta. Io allora abitavo già a Barcellona, ma quasi ogni anno tornavo in Italia e Manzi era una delle persone che andavo a trovare. Mi disse che lui, in quanto comandante della stazione dei carabinieri di Dongo, era responsabile di tutti i prigionieri. Quindi anche di Mussolini. A me confidò che era stato presente. Era andato a casa De Maria, verso le 7, o 7 e mezza, del mattino del 28 aprile e che, quando entrò nella stanza di Mussolini, lo trovò già praticamente morto. Si era suicidato con una capsula di veleno. Io, lì per lì, non diedi peso a quanto mi disse. Stavo cercando di dimenticare quanto era accaduto, mi stavo costruendo una nuova vita, in Spagna, dove nessuno mi conosceva e non ero guardata con quell’attenzione morbosa con la quale ero avvicinata qui in Italia, dove tutti volevano sapere perché e per come fossi la figlia di Mussolini». Manzi è morto il 1° febbraio 2001. Da me interpellato, suo figlio Giancarlo non ha voluto confermare la notizia fornita da Elena Curti: «So che mio padre aveva una sua teoria sulla morte di Mussolini, ma non mi disse nulla in proposito». Il mistero continua.
(di Roberto Festorazzi - http://www.libero-news.it/)

domenica 15 aprile 2012

Il Punto dell'On. Marco Zacchera del PdL

Il Punto N. 400 del 9 aprile 2012
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400 VOLTE
E' questo il 400° numero de IL PUNTO. Non so quante altre piccole agenzie di informazioni via mail siano arrivate a questo traguardo di quasi 10 anni vissuta in compagnia di una platea di lettori sempre più vasta nella zona di Verbania, in Italia e nel mondo E' grazie alla vostra attenzione ed alle tantissime mail che si intrecciano dopo ogni numero che amo continuare a scriverla (buttandola giù direttamente in bella, e scusatemi quindi se ogni tanto mi scappa qualche errore di battuta). Per la 400a volta quindi “Buona lettura” e se volete farmi un piacere mandatemi qualche nuovo indirizzo!

BOSSI & C.
Le cronache giudiziarie imperversano su Umberto Bossi e il suo entourage - meglio noto come “Cerchio Magico” - che entra nel consueto tritacarne mediatico mentre emergono dettagli di ordinaria meschinità. Non valuto nel merito la vicenda (anche se sottolineo che, dimettendosi, Bossi ha dimostrato molta più serietà di altri leaders politici) ma comprendo e leggo lo smarrimento e lo sconforto negli occhi di molti militanti leghisti che per il loro partito hanno dato tutto. E' lo stesso smarrimento che vedevo negli scritti di A.N. quando uscivano le brutte vicende di Montecarlo, così come in tanti militanti della sinistra quando leggono le vicende dei fondi della ex Margherita o degli “affari” che i dirigenti del PD sembrano aver avuto in tante parti d'Italia.
Questo è il vero scandalo: vertici di partito e amministratori pubblici che truffano e tradiscono le coscienze prima ancora che fregarsi i soldi o i beni del proprio movimento politico ed alla base di molte vicende squallide c'è sempre, ricorrente, lo scandalo dei finanziamenti pubblici a partiti e movimenti (molti dei quali veri e propri fantasmi, come certi giornali di partito che tuttora costano centinaia di euro a copia e non li legge nessuno) che non danno rendiconti credibili e in passato hanno ricevuto borsate di soldi per rimborsi elettorali senza neppure averli spesi. Ricordo con nostalgia e rimpianto le campagne elettorali degli anni '70 quando al MSI non avevamo un centesimo e la campagna elettorale era finanziata con le cambiali firmate da Almirante che ogni dirigente periferico doveva andare a scontarsi o anticipare per conto suo se voleva far appiccicare i manifesti.
Quante volte, in tempi non sospetti, ho scritto su IL PUNTO che - anzichè dare finanziamenti pubblici a pioggia a tutti i partiti - sarebbe molto meglio rendere meno cara e più trasparente la pubblicità in campagna elettorale (spot, spese postali, manifesti) e soprattutto non violare lo spirito di un referendum che a larghissima maggioranza aveva detto “stop” al finanziamento pubblico ai partiti. Ma ancor una volta – come per la RAI o la responsabilità civile dei Magistrati – il volere popolare non conta nulla. Adesso tutti hanno scoperto lo scandalo dei fondi ai partiti ma perchè - anche nelle recenti norme finanziarie – si sono massacrati (quasi) tutti gli italiani ma non si sono tagliati questi fondi? E' una ulteriore, profonda tristezza vedere che proprio in anni di progressiva crisi economica per tanta gente c'è chi ha sopraffatto e sprecato, rubato e sporcato la Politica in modo ignobile.

VERBANIA: CONTI IN ORDINE E “VIRTUOSI” ! (ma serve?)
Verbania è un comune virtuoso e con i conti in ordine. Insieme a Brescia è risultato l'unico capoluogo di provincia in Italia che quest'anno può vantare l’eccellenza del proprio bilancio e che negli anni scorsi è stato capace di raggiungere tutti gli obbiettivi di equilibrio finanziario. L’ha stabilito il ministero delle Finanze con un decreto nel quale si conferma anche il “premio” ottenuto per questa virtuosità: non libertà operativa, ma solo la possibilità per il 2012 di non dover tagliare ulteriormente il saldo del patto di stabilità. Introducendo il criterio della virtuosità, che si calcola su parametri matematici applicati ai bilanci degli enti pubblici sottoposti al “Patto” (le Province e tutti i Comuni sopra i 5.000 abitanti), lo Stato ha voluto insomma solo dare un modesto contentino.
“Nessun aumento dei trasferimenti, infatti, ma anzi nuovi tagli (oltre 2.000.000 di euro su 8 milioni di trasferimenti - ndr)con l'unico risvolto concreto – a parte una legittima soddisfazione - che nel 2012 potremo pagare con più regolarità i fornitori senza farli attendere mesi” Ha spiegato l’assessore alle Finanze, dott. Stefano Calderoni che, insieme agli uffici finanziari del comune, ha il maggior merito per questo risultato.
E' veramente un assurdo, infatti, che pur avendo raggiunto tutti gli obbiettivi prefissati non ci sia data la possibilità di un allargamento nelle possibilità operative. Possibile che anche i comuni virtuosi non possano avere la possibilità di assumere personale anche là dove può rendere (un esempio la farmacia comunale: non potendo assumere nessuno non possiamo tenerla aperta un giorno in più la settimana, il che porterebbe vantaggi e risorse fresche al comune ben oltre il costo del dipendente...) oppure scegliere di spendere in quei settori che creano ricchezza. Siamo un comune turistico (con 836.000 presenze nel 2011 il più frequentato del Piemonte dopo Torino) ma – per esempio – è ci vietato allestire mostre e manifestazioni...
Per questo c'è delusione: alla fine che tu lavori bene o che sprechi i soldi un sistema ingessato non premia concretamente i virtuosi: peccato!

“Adotta la tua Verbania”: cercansi volontari civici
La scorsa settimana - triste nel vedere il degrado di troppe aiuole, del menefreghismo di chi non pulisce la merda del proprio cane o non raccoglie le carte che vede per terra – ho lanciato un appello alla collaborazione civica, debolmente ripreso dai mezzi di informazione.
“Non fa notizia”, infatti, accennare a queste cose e non fa scandalo dover amaramente dire «Cerco cittadini di buona volontà che vogliano assumersi un piccolo impegno pubblico». Questo perchè il Comune non può arrivare a tutto, soprattutto per le micro-manutenzioni, e chiede collaborazione.
Ti interessa quindi curare un’aiuola davanti a casa, un pezzetto di marciapiede, uno scivolo a lago, oppure verniciare una panchina? Ti chiediamo di aderire a questa iniziativa impegnandoti a segnalare eventuali problemi a quanto ti sarà affidato, a bagnare i fiori se si tratta di una aiuola, a raccogliere una carta buttata a terra in un angolo di strada, a fare una piccolissima manutenzione se necessaria, magari di emergenza, a segnalare un danno, una buca…
L’idea si basa sul puro spirito civico: alcuni già lo fanno e vorrei pubblicamente ringraziarli ma il mio invito si rivolge a tutti: alle singole persone, magari anziane e che hanno più tempo libero; alle classi di una scuola; a un condominio; ai frontisti di una strada… Non potremo pagare nessuno, ma saranno apprezzati “volontari della buona volontà”, come già operano alcune persone a Intra con ottimi risultati.
Chi aderisce concorderà con gli uffici le modalità e riceverà informazioni e supporto. Queste persone se lo desiderano vedranno riconosciuto il proprio lavoro, magari con una dedica: potremo così avere “l’aiuola di Andrea” o “ l’angolo pulito da Giuseppina” .
Per aderire basta telefonare allo 0323.542220 lasciando il proprio recapito, oppure scrivendo una e-mail a marco.zacchera@libero.it comunicando l’eventuale specifico desiderio di manutenzione e si sarà contattati al più presto. Cominciamo con i lungolago da tenere in ordine e i parchi cittadini: piccoli gesti che possono davvero rilanciare l’immagine della città.

UN SALUTO A TUTTI ! MARCO ZACCHERA