di: Roberto Barbolini (Panorama n. 30 (2151) Anno XLV del 26 Luglio 2007)
ooooooooooOoooooooooo
Il destino di Felice Pedroni, che partì povero dall’Italia, diede il via alla corsa all’oro in Alaska, diventò ricco. E il 22 luglio è celebrato alla festa del Golden day nella città di Fairbanks.
Quando Felix Pedro entrò in paese con in testa il cappello a tesa larga e la mano destra negligentemente appoggiata sul calcio della pistola, portava un tesoro nel cinturone: luccicanti pepite d’oro al posto dei proiettili. Eppure era disperato. Dopo averlo illuso fino all’ultimo la sua piccola Egle, o Adelinda come amava farsi chiamare, aveva respinto la domanda di matrimonio. Colpa di quella strega della madre, spaventata dalla sua nomea d’avventuriero tornato a casa dopo tanti anni ostentando una ricchezza sicuramente d’origine poco raccomandabile. Colpa di quella terra remota e freddissima all’estremo nord dell’America, l’Alaska, dove avrebbe voluto portare a vivere la futura moglie.
«Colpa della mia età, soprattutto» rifletteva malinconicamente Felix Pedro, giocherellando con la pistola scarica mentre attraversava la piazza: lui aveva 46 anni, la bella Egle esattamente la metà; lei era maestra, lui analfabeta. Come aveva potuto essere così pazzo da chiederla in moglie? Nella nera miseria della sua infanzia tra pecore e castagni s’era sempre ribellato all’odioso detto «I soldi non danno la felicità». Ma ormai doveva arrendersi all’evidenza e riconoscere che tutta la sua ricchezza non valeva niente.
Eppure solo pochi mesi prima, quando aveva preso il piroscafo per tornare ricco sfondato in Italia, da dove era partito con le pezze al sedere poco più che ventenne, la favola che gli raccontava la sua immaginazione suonava tutta diversa. Al paese avrebbero accolto come un eroe l’uomo che aveva scoperto l’oro in Alaska, il fondatore della città di Fairbanks: Felice Pedroni da Trignano, conosciuto in tutto il Wilderness come Felix Pedro.
D’improvviso rivide l’alce. L’aveva abbattuto con l’ultimo colpo in canna, temendo fino alla fine che si trattasse di un’allucinazione figlia del freddo e della fame. La bestia agonizzava nell’acqua gelida che scorreva fra i ciottoli del «creek», come lassù chiamavano i torrenti. Mentre trascinava la carcassa sanguinante nella neve, Felix Pedro aveva scorto una pagliuzza dorata incastrata nello zoccolo dell’animale. In un lampo s’ era reso conto d’ aver finalmente ritrovato il ruscello perduto, il Lost Creek che tornava tanto spesso nei suoi sogni. L’ aveva setacciato quattro anni prima, trovandolo così pieno d’oro da fargli sospettare l’esistenza d’un filone ricchissimo, che avrebbe fatto la sua fortuna; ma la penuria di cibo l’aveva costretto ad allontanarsi per rifornirsi di provviste al magazzino del capitano Barnette. Da allora non aveva più smesso di cercarlo, quel «bonanza» inesauribile smarrito tra i boschi e le gole montane nell’area del Chena River; ma senza successo. Ed ecco che un povero alce morente, un colpo di fucile dettato dalla disperazione e dalla fame gli avevano fatto ritrovare la sua fortuna.
«Già, bella roba: sono ricco sfondato e non riesco neppure a trovare moglie». Felice Pedroni scosse malinconicamente la testa. Ormai la sorte aveva deciso: sarebbe ridiventato per sempre Felix Pedro. Il destino lo costringeva a tornarsene in Alaska da solo, a godersi la sua inutile ricchezza e il silenzio assordante del Grande Nord.
Non è difficile immaginare il magone di Felice Pedroni mentre saluta il suo Appennino natale, col presentimento che si tratti d’un commiato definitivo. Alla tristezza aggiungerebbe la rabbia, se sapesse che, su suggerimento della madre, Egle Zanetti ha ritirato all’ultimo momento dall’ufficio postale, complice il cugino Oreste Filippi che ci lavora, la lettera di risposta in cui accetta la sua domanda di matrimonio.
«Egle ha poi fatto la maestra a Lizzano in Belvedere, dov’era nata, ma non si è mai sposata. E ha continuato a vivere nel ricordo di quell’avventuriero che voleva prenderla in moglie e portarsela in Alaska» racconta Aida Pellati, assessore alla Cultura e ai servizi sociali di Fanano, garbata località turistica dell’Appennino modenese, entro il cui territorio comunale Felix Pedro nacque il 16 aprile 1858, nella frazione di Trignano. Lasciando le linde piazzette di Fanano, le viottole che salgono a monte verso il Cimone, a Trignano si arriva in pochi chilometri, passando il torrente Leo per poi risalire fra boschi e tornanti. La chiesa, il cimitero, un pugno di case. Quella dove Felice vide la luce è in località Ca’ Biagio: un edificio in pietra viva, sulla cui facciata spicca l’immancabile targa ricordo.
«Felix Pedro non aveva paura di niente e di nessuno» assicura con orgoglio il pronipote Gianfranco Pedroni, mostrando la piccola finestra dalla quale, stando alla leggenda, l’avo sarebbe sortito alla chetichella per scapparsene in America. Perché tutto, nella vita di Felice Pedroni, deve tingersi di toni romanzeschi: anche il duro destino dell’emigrante. Ne è convinto Giorgio Comaschi, giornalista e uomo di spettacolo, che parla di una festa da ballo davanti alla chiesetta del paese, d’una misteriosa ragazza dai capelli neri e d’uno sparo che risuona nella notte: «Il giorno dopo Felice Pedroni fa i bagagli e se ne va».
Sull’ avventurosa storia dell’uomo che diede il via alla corsa all’oro in Alaska Comaschi sta allestendo uno spettacolo, che debutterà nel corso della prossima stagione, e scrivendo un romanzo («basato su fatti veri, siamo già a 350 pagine») assieme al ricercatore Claudio Busi, un bolognese che vent’anni fa portò da Fanano a Fairbanks una targa in onore di Felix Pedro.
Perché c’è un punto che va subito chiarito; un punto scintillante come la pepita d’oro incastonata nella pelle d’alce che gli abitanti della seconda città alaskana hanno donato ai fananesi in occasione d’un recente gemellaggio: prima di essere una gloria locale finalmente riscoperta, Felix Pedro era già un mito americano.
Un consiglio? Se potete, il 22 luglio prossimo andate a Fairbanks. Troverete una città in piena festa per il Golden day, che rievoca i giorni della caccia all’oro in un clima tra il western e i racconti di Jack London sul Grande Nord. A un certo punto un cavaliere irromperà al galoppo sul corso principale, con un sacchetto pieno d’oro appeso alla sella, e andrà a depositarlo in banca. È una scena che si ripete ogni anno e rievoca ciò che fece Felix Pedro con le prime pepite del suo Lost Creek, subito ribattezzato Pedro Creek. L’ alce non poteva saperlo, ma la pallottola fatale che l’uccise fu infatti sparata il 22 luglio 1902.
Pochi giorni dopo, il 28 luglio, Felix Pedro irrompe nel magazzino del capitano Barnette a Tanacross (oggi Tanana Crossing). Eldridge Truman Barnette, un avventuriero dal passato turbolento che si è dato al commercio e vuole fare di Tanacross «la Chicago del Nord», è assente. Cinque anni prima, quando Jack London lo conobbe a Dawson City, E.T. possedeva la miglior muta di cani di tutto il Klondike. Uno di questi, appartenuto agli indiani stanziati a nord del Porcupine, era un meticcio per metà lupo che avrebbe ispirato a London Zanna Bianca.
Ma quel fatidico 28 luglio E.T. è in viaggio lungo il fiume Tanana sulla Lavelle Young, la sua nave a vapore, per rifornirsi di viveri e attrezzi da vendere a cercatori d’oro e cacciatori di pellicce. Al suo posto c’è il fratello della moglie, Frank Cleary: un ragazzo di 25 anni che, nonostante il divieto di Barnette, ha già fatto credito due volte a Felix Pedro. Adesso è pronto a respingere un terzo tentativo, ma Pedro, tutto eccitato, gli racconta di aver ritrovato il ruscello perduto. E, con esso, l’oro.
Oro in quantità inimmaginabile, un’infinità di concessioni da picchettare lungo il corso del torrente, fino a quella vena profonda, annidata nel ventre d’una terra inospitale, che tuttora frutta ai proprietari qualcosa come 500 mila euro al giorno. «Dovreste vederla, la miniera, una roba impressionante. Ci hanno anche fotografati, ciascuno con in mano un gigantesco lingotto d’oro. Ma eravamo circondati da guardie armate, caso mai a qualcuno fosse venuto in mente di fare il furbo»: così Gottardo Turchi, suonatore di trombone nella banda del paese, ricorda il momento saliente della spedizione fananese che, capitanata dal sindaco Alessandro Corsini, si recò a Fairbanks nel 2002 per il centenario della scoperta dell’oro. Visita ricambiata da Steve Thompson, major della città alaskana di cui Pedro è considerato cofondatore assieme al capitano Barnette, che sarà a Fanano anche il prossimo settembre in occasione dell’autoctono Felix Pedro day.
Ma sì, dagli Appennini all’Alaska oggi il passo è breve, il ritorno garantito. Duro si rivelò invece il destino che attendeva Felice Pedroni al rientro dall’ultimo soggiorno italiano, dopo la delusione sentimentale per le mancate nozze con la maestrina. «Old Witch» lo chiamavano indiani e cercatori d’oro, che per anni l’avevano amabilmente sfottuto come millantatore mentre lui continuava a cercare il suo fiume perduto. Ma fu una (quasi) giovane strega, l’irlandese Mary Ellen Doran, ad avvelenargli la vita.
Forse non solo in senso metaforico. Mary era un tipino in gamba, un’ex ballerina da saloon che era arrivata a gestire la Roadhouse numero 4 di Dawson City, e in poco tempo lo abbindolò. Il 22 luglio 1906, a quattro anni esatti dalla scoperta dell’oro nel Lost Creek, lei e Pedro si sposarono. Fu l’inizio dell’inferno. Il matrimonio andò avanti un paio d’ anni tra abbandoni e ripicche, mentre il favoloso patrimonio di Pedro s’andava assottigliando. Finché il 19 gennaio 1908 un articoletto a pagina 9 del Tacoma Daily Ledger segnalò che Mary Ellen Pedro, «la reginetta di un campo minerario in Alaska fino a che non aveva sposato Felix Pedro», aveva presentato istanza di divorzio per crudeltà e abbandono.
Dal censimento federale di Fairbanks, però, nel giugno 1910 i due risultano ancora conviventi. E qui la vicenda s’intorbida. Poco più di un mese dopo, sempre in quella fatidica data del 22 luglio che ricorre come una cabala nella sua vita, Felix Pedro muore al St.Joseph Hospital di Fairbanks, ufficialmente per attacco cardiaco.
Come il suo corpo ricompaia un paio d’anni dopo in un cimitero di San Francisco e finalmente, nel 1972, venga traslato nel camposanto di Fanano è aneddotica che corrobora il mito ma non scioglie il mistero. Esso resta affidato alle voci di un’autopsia eseguita in segreto sul cadavere, che avrebbe rivelato la punta d’uno spillone infilata tra le vertebre, e all’ossessiva litania di Vincenzo Gambaiani, un compaesano che aveva lavorato con Pedro in Alaska, il quale, ormai vecchio e colpito alla favella da un ictus, a nominargli l’amico bofonchiava due sole parole: «Moglie… veleno».
Infarto o uxoricidio? Il finale del romanzo, per ora, resta aperto. Ma forse è inutile voler scoprire davvero in che modo Felice Pedroni da Trignano, venerato in Alaska come Felix Pedro, abbia incontrato la morte che, un giorno lontano, aveva scorto negli occhi di un alce agonizzante tra le pepite del Lost Creek.
Quando Felix Pedro entrò in paese con in testa il cappello a tesa larga e la mano destra negligentemente appoggiata sul calcio della pistola, portava un tesoro nel cinturone: luccicanti pepite d’oro al posto dei proiettili. Eppure era disperato. Dopo averlo illuso fino all’ultimo la sua piccola Egle, o Adelinda come amava farsi chiamare, aveva respinto la domanda di matrimonio. Colpa di quella strega della madre, spaventata dalla sua nomea d’avventuriero tornato a casa dopo tanti anni ostentando una ricchezza sicuramente d’origine poco raccomandabile. Colpa di quella terra remota e freddissima all’estremo nord dell’America, l’Alaska, dove avrebbe voluto portare a vivere la futura moglie.
«Colpa della mia età, soprattutto» rifletteva malinconicamente Felix Pedro, giocherellando con la pistola scarica mentre attraversava la piazza: lui aveva 46 anni, la bella Egle esattamente la metà; lei era maestra, lui analfabeta. Come aveva potuto essere così pazzo da chiederla in moglie? Nella nera miseria della sua infanzia tra pecore e castagni s’era sempre ribellato all’odioso detto «I soldi non danno la felicità». Ma ormai doveva arrendersi all’evidenza e riconoscere che tutta la sua ricchezza non valeva niente.
Eppure solo pochi mesi prima, quando aveva preso il piroscafo per tornare ricco sfondato in Italia, da dove era partito con le pezze al sedere poco più che ventenne, la favola che gli raccontava la sua immaginazione suonava tutta diversa. Al paese avrebbero accolto come un eroe l’uomo che aveva scoperto l’oro in Alaska, il fondatore della città di Fairbanks: Felice Pedroni da Trignano, conosciuto in tutto il Wilderness come Felix Pedro.
D’improvviso rivide l’alce. L’aveva abbattuto con l’ultimo colpo in canna, temendo fino alla fine che si trattasse di un’allucinazione figlia del freddo e della fame. La bestia agonizzava nell’acqua gelida che scorreva fra i ciottoli del «creek», come lassù chiamavano i torrenti. Mentre trascinava la carcassa sanguinante nella neve, Felix Pedro aveva scorto una pagliuzza dorata incastrata nello zoccolo dell’animale. In un lampo s’ era reso conto d’ aver finalmente ritrovato il ruscello perduto, il Lost Creek che tornava tanto spesso nei suoi sogni. L’ aveva setacciato quattro anni prima, trovandolo così pieno d’oro da fargli sospettare l’esistenza d’un filone ricchissimo, che avrebbe fatto la sua fortuna; ma la penuria di cibo l’aveva costretto ad allontanarsi per rifornirsi di provviste al magazzino del capitano Barnette. Da allora non aveva più smesso di cercarlo, quel «bonanza» inesauribile smarrito tra i boschi e le gole montane nell’area del Chena River; ma senza successo. Ed ecco che un povero alce morente, un colpo di fucile dettato dalla disperazione e dalla fame gli avevano fatto ritrovare la sua fortuna.
«Già, bella roba: sono ricco sfondato e non riesco neppure a trovare moglie». Felice Pedroni scosse malinconicamente la testa. Ormai la sorte aveva deciso: sarebbe ridiventato per sempre Felix Pedro. Il destino lo costringeva a tornarsene in Alaska da solo, a godersi la sua inutile ricchezza e il silenzio assordante del Grande Nord.
Non è difficile immaginare il magone di Felice Pedroni mentre saluta il suo Appennino natale, col presentimento che si tratti d’un commiato definitivo. Alla tristezza aggiungerebbe la rabbia, se sapesse che, su suggerimento della madre, Egle Zanetti ha ritirato all’ultimo momento dall’ufficio postale, complice il cugino Oreste Filippi che ci lavora, la lettera di risposta in cui accetta la sua domanda di matrimonio.
«Egle ha poi fatto la maestra a Lizzano in Belvedere, dov’era nata, ma non si è mai sposata. E ha continuato a vivere nel ricordo di quell’avventuriero che voleva prenderla in moglie e portarsela in Alaska» racconta Aida Pellati, assessore alla Cultura e ai servizi sociali di Fanano, garbata località turistica dell’Appennino modenese, entro il cui territorio comunale Felix Pedro nacque il 16 aprile 1858, nella frazione di Trignano. Lasciando le linde piazzette di Fanano, le viottole che salgono a monte verso il Cimone, a Trignano si arriva in pochi chilometri, passando il torrente Leo per poi risalire fra boschi e tornanti. La chiesa, il cimitero, un pugno di case. Quella dove Felice vide la luce è in località Ca’ Biagio: un edificio in pietra viva, sulla cui facciata spicca l’immancabile targa ricordo.
«Felix Pedro non aveva paura di niente e di nessuno» assicura con orgoglio il pronipote Gianfranco Pedroni, mostrando la piccola finestra dalla quale, stando alla leggenda, l’avo sarebbe sortito alla chetichella per scapparsene in America. Perché tutto, nella vita di Felice Pedroni, deve tingersi di toni romanzeschi: anche il duro destino dell’emigrante. Ne è convinto Giorgio Comaschi, giornalista e uomo di spettacolo, che parla di una festa da ballo davanti alla chiesetta del paese, d’una misteriosa ragazza dai capelli neri e d’uno sparo che risuona nella notte: «Il giorno dopo Felice Pedroni fa i bagagli e se ne va».
Sull’ avventurosa storia dell’uomo che diede il via alla corsa all’oro in Alaska Comaschi sta allestendo uno spettacolo, che debutterà nel corso della prossima stagione, e scrivendo un romanzo («basato su fatti veri, siamo già a 350 pagine») assieme al ricercatore Claudio Busi, un bolognese che vent’anni fa portò da Fanano a Fairbanks una targa in onore di Felix Pedro.
Perché c’è un punto che va subito chiarito; un punto scintillante come la pepita d’oro incastonata nella pelle d’alce che gli abitanti della seconda città alaskana hanno donato ai fananesi in occasione d’un recente gemellaggio: prima di essere una gloria locale finalmente riscoperta, Felix Pedro era già un mito americano.
Un consiglio? Se potete, il 22 luglio prossimo andate a Fairbanks. Troverete una città in piena festa per il Golden day, che rievoca i giorni della caccia all’oro in un clima tra il western e i racconti di Jack London sul Grande Nord. A un certo punto un cavaliere irromperà al galoppo sul corso principale, con un sacchetto pieno d’oro appeso alla sella, e andrà a depositarlo in banca. È una scena che si ripete ogni anno e rievoca ciò che fece Felix Pedro con le prime pepite del suo Lost Creek, subito ribattezzato Pedro Creek. L’ alce non poteva saperlo, ma la pallottola fatale che l’uccise fu infatti sparata il 22 luglio 1902.
Pochi giorni dopo, il 28 luglio, Felix Pedro irrompe nel magazzino del capitano Barnette a Tanacross (oggi Tanana Crossing). Eldridge Truman Barnette, un avventuriero dal passato turbolento che si è dato al commercio e vuole fare di Tanacross «la Chicago del Nord», è assente. Cinque anni prima, quando Jack London lo conobbe a Dawson City, E.T. possedeva la miglior muta di cani di tutto il Klondike. Uno di questi, appartenuto agli indiani stanziati a nord del Porcupine, era un meticcio per metà lupo che avrebbe ispirato a London Zanna Bianca.
Ma quel fatidico 28 luglio E.T. è in viaggio lungo il fiume Tanana sulla Lavelle Young, la sua nave a vapore, per rifornirsi di viveri e attrezzi da vendere a cercatori d’oro e cacciatori di pellicce. Al suo posto c’è il fratello della moglie, Frank Cleary: un ragazzo di 25 anni che, nonostante il divieto di Barnette, ha già fatto credito due volte a Felix Pedro. Adesso è pronto a respingere un terzo tentativo, ma Pedro, tutto eccitato, gli racconta di aver ritrovato il ruscello perduto. E, con esso, l’oro.
Oro in quantità inimmaginabile, un’infinità di concessioni da picchettare lungo il corso del torrente, fino a quella vena profonda, annidata nel ventre d’una terra inospitale, che tuttora frutta ai proprietari qualcosa come 500 mila euro al giorno. «Dovreste vederla, la miniera, una roba impressionante. Ci hanno anche fotografati, ciascuno con in mano un gigantesco lingotto d’oro. Ma eravamo circondati da guardie armate, caso mai a qualcuno fosse venuto in mente di fare il furbo»: così Gottardo Turchi, suonatore di trombone nella banda del paese, ricorda il momento saliente della spedizione fananese che, capitanata dal sindaco Alessandro Corsini, si recò a Fairbanks nel 2002 per il centenario della scoperta dell’oro. Visita ricambiata da Steve Thompson, major della città alaskana di cui Pedro è considerato cofondatore assieme al capitano Barnette, che sarà a Fanano anche il prossimo settembre in occasione dell’autoctono Felix Pedro day.
Ma sì, dagli Appennini all’Alaska oggi il passo è breve, il ritorno garantito. Duro si rivelò invece il destino che attendeva Felice Pedroni al rientro dall’ultimo soggiorno italiano, dopo la delusione sentimentale per le mancate nozze con la maestrina. «Old Witch» lo chiamavano indiani e cercatori d’oro, che per anni l’avevano amabilmente sfottuto come millantatore mentre lui continuava a cercare il suo fiume perduto. Ma fu una (quasi) giovane strega, l’irlandese Mary Ellen Doran, ad avvelenargli la vita.
Forse non solo in senso metaforico. Mary era un tipino in gamba, un’ex ballerina da saloon che era arrivata a gestire la Roadhouse numero 4 di Dawson City, e in poco tempo lo abbindolò. Il 22 luglio 1906, a quattro anni esatti dalla scoperta dell’oro nel Lost Creek, lei e Pedro si sposarono. Fu l’inizio dell’inferno. Il matrimonio andò avanti un paio d’ anni tra abbandoni e ripicche, mentre il favoloso patrimonio di Pedro s’andava assottigliando. Finché il 19 gennaio 1908 un articoletto a pagina 9 del Tacoma Daily Ledger segnalò che Mary Ellen Pedro, «la reginetta di un campo minerario in Alaska fino a che non aveva sposato Felix Pedro», aveva presentato istanza di divorzio per crudeltà e abbandono.
Dal censimento federale di Fairbanks, però, nel giugno 1910 i due risultano ancora conviventi. E qui la vicenda s’intorbida. Poco più di un mese dopo, sempre in quella fatidica data del 22 luglio che ricorre come una cabala nella sua vita, Felix Pedro muore al St.Joseph Hospital di Fairbanks, ufficialmente per attacco cardiaco.
Come il suo corpo ricompaia un paio d’anni dopo in un cimitero di San Francisco e finalmente, nel 1972, venga traslato nel camposanto di Fanano è aneddotica che corrobora il mito ma non scioglie il mistero. Esso resta affidato alle voci di un’autopsia eseguita in segreto sul cadavere, che avrebbe rivelato la punta d’uno spillone infilata tra le vertebre, e all’ossessiva litania di Vincenzo Gambaiani, un compaesano che aveva lavorato con Pedro in Alaska, il quale, ormai vecchio e colpito alla favella da un ictus, a nominargli l’amico bofonchiava due sole parole: «Moglie… veleno».
Infarto o uxoricidio? Il finale del romanzo, per ora, resta aperto. Ma forse è inutile voler scoprire davvero in che modo Felice Pedroni da Trignano, venerato in Alaska come Felix Pedro, abbia incontrato la morte che, un giorno lontano, aveva scorto negli occhi di un alce agonizzante tra le pepite del Lost Creek.
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