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Un attacco di emorroidi e la mancanza di qualche etto di chiodi. Si può perdere una battaglia (anche) per due piccoli guai del genere. È capitato a Napoleone, a Waterloo, nel 1815. Per non farsi fucilare dai fans del Piccolo Caporale e dagli storici professionisti, conviene dir subito che la sconfitta che mise fine una volta per tutte al Primo Impero non fu provocata solo da simili banalità. Che però un qualche influsso lo ebbero, andandosi a sommare a elementi di peso ben superiore come, per esempio, la superba leadership del Duca di Wellington, la tenacia dei soldati britannici e lo scarso addestramento di parte delle truppe francesi. Per capire il come e il perché, conviene salire su un’ipotetica macchina del tempo e tornare indietro al 18 giugno di 195 anni fa per guardare dall’alto il campo di battaglia. L’alba è passata da poco. Ha piovuto tutta la notte, il terreno è molle e fangoso, tanto che l’artiglieria, la temibile artiglieria francese, risulterà meno pericolosa del solito perché le palle affondano e si fermano invece di rimbalzare, ammazzando molto meno soldati del normale. Man mano che il sole scalda l’aria, però, la terra si asciuga e comincia a fumare. Il grano ricopre i campi che separano le linee francesi da quelle degli avversari inglesi, che oltretutto sono schierati in gran parte dietro la cresta delle colline che sbarrano la strada per Bruxelles e quindi sono poco visibili dagli avversari.
Siamo in giugno, il frumento è maturo ma la mietitura non c’è ancora stata: i contadini, con tutti quei soldati che da giorni si affrontano nella zona, sono scappati o si sono nascosti, in attesa di sbucare fuori a battaglia finita per andare di notte a depredare i morti e i feriti. Le file di soldati che si avvicinano agli inglesi, al suono dei tamburi e mentre i cannoni già tuonano, scompaiono tra le spighe. Quando poi le opposte fanterie cominciano a fare fuoco, il fumo della polvere da sparo ricopre tutto: in ogni resoconto dei combattimenti napoleonici, si mette l’accento sulla caligine che dopo pochi minuti invade i campi di battaglia (e sulla sete che invariabilmente tormenta i combattenti con le gole irritate). Insomma a Waterloo, tra grano, vapore e fumo, presto non si vede più niente. Del resto capitava quasi sempre. E i generali dell’epoca, per poter avere un minimo di visibilità e comandare, si piazzavano a cavallo su una collina alle spalle dello schieramento e da lì, come su una scacchiera, spostavano le loro formazioni, facevano intervenire le riserve, cercavano di trovare e sfruttare quello che i tedeschi chiamano lo schwerpunkt, il punto focale della battaglia, dove si decide la giornata. Ma Napoleone ha le emorroidi, sta in sella a fatica (mentre dall’altra parte Wellington cavalca instancabile da un lato all’altro dello schieramento), si sposta in carrozza e conduce in gran parte la battaglia da dietro, seduto su una sedia: a un certo punto i dolori si fanno talmente forti che l’Imperatore è costretto a ricorrere alle cure dei medici, che gli applicano impacchi di acetato di piombo sulla parte infiammata e lo riempiono di laudano (tintura d’oppio).
Il Napoleone di Austerlitz, che a cavallo dall’alto del Pratzen guardava l’attacco degli austro-russi e ne programmava la disfatta, è un ricordo lontano. Quello di Waterloo non «vede» la battaglia, nè fisicamente nè con gli occhi della mente: per tutta la giornata, la sua conduzione tattica appare lenta e non sempre all’altezza della sua fama, la sua presa sulla situazione sembra tutt’altro che salda. Il genio strategico è sempre quello di un tempo e lo dimostra il piano che lo ha portato a Waterloo: prima tenere a bada gli inglesi e battere i prussiani (e ci è quasi riuscito a Ligny, due giorni prima), poi rivolgere tutto il peso dell’esercito contro Wellington e sbaragliarlo. Ma sul campo sta perdendo colpi. Non sarebbe un dramma, se i suoi ufficiali fossero quelli dei trionfi. Ma il capo di Stato maggiore non è più Berthier, l’uomo che aveva il compito di trasformare le parole del genio in piani operativi: è morto il primo giugno cadendo dalla finestra di casa sua, forse incidente, forse suicidio, forse ucciso dai fedeli dei Borboni per impedirgli di riunirsi all’imperatore. Ora al suo posto c’è il maresciallo Soult, che del predecessore non ha nè la competenza nè il carisma. E a comandare i soldati sul campo ci sono il maresciallo Ney, il «coraggioso tra i coraggiosi» ma non un’aquila, e Grouchy, che sta inseguendo i prussiani. O meglio, che crede di inseguirli mentre in realtà il grosso delle loro forze ha fatto un giro e sta tornando verso Waterloo, verso l’ala destra francese.
Così quando, verso le 15,30, Ney decide di impiegare contro gli inglesi, che hanno già respinto tutti gli attacchi della fanteria francese, i cinquemila corazzieri della sua cavalleria pesante, l’imperatore piegato dalle emorroidi è lontano nelle retrovie, non lo sa, forse non se ne rende conto e non lo ferma. Perché la mossa di Ney è un’idiozia: la fanteria attaccata dalla cavalleria si chiudeva in quadrato, formazione che, irta di baionette, era praticamente impenetrabile. I quadrati erano invece molto vulnerabili all’artiglieria. Per riuscire a sfondarli, quindi, bisognava minacciarli con l’artiglieria inmodo che la fanteria fosse costretta ad aprirsi e a rischierarsi in linea: a quel punto la si poteva attaccare con la cavalleria. La mossa di Ney aveva una sola giustificazione: costringere gli artiglieri inglesi ad abbandonare i loro pezzi e a rifugiarsi dentro i quadrati, in modo da conquistare i cannoni, privare i fanti inglesi del loro appoggio di fuoco e portare avanti la propria artiglieria. E Ney, sia pure a costo di gravi perdite, ci riesce.
Ma a questo punto entrano in ballo i chiodi, o meglio la loro mancanza. I cannoni napoleonici erano aggeggi pesanti e robusti, con congegni di puntamento primitivi, difficilissimi da danneggiare. Ma un sistema per metterli fuori uso c’era: si piantava a martellate un chiodo senza capocchia nel focone, il foro che permetteva di dare fuoco alla carica di lancio. Però i corazzieri di Ney non hanno i chiodi: forse nessuno ha pensato a portarli, forse le bisacce che li contengono sono appese alle selle dei cavalli morti che giacciono ovunque. Così non appena la cavalleria si allontana, gli artiglieri inglesi escono dai quadrati e riprendono a sparare. I corazzieri attaccano e riattaccano ma senza concludere niente, se non dissanguarsi e privare l’imperatore di tutte le riserve di cavalleria pesante. Intanto i prussiani stanno arrivando. Gli inglesi contrattaccano. È finita. (www.corriere.it)
Siamo in giugno, il frumento è maturo ma la mietitura non c’è ancora stata: i contadini, con tutti quei soldati che da giorni si affrontano nella zona, sono scappati o si sono nascosti, in attesa di sbucare fuori a battaglia finita per andare di notte a depredare i morti e i feriti. Le file di soldati che si avvicinano agli inglesi, al suono dei tamburi e mentre i cannoni già tuonano, scompaiono tra le spighe. Quando poi le opposte fanterie cominciano a fare fuoco, il fumo della polvere da sparo ricopre tutto: in ogni resoconto dei combattimenti napoleonici, si mette l’accento sulla caligine che dopo pochi minuti invade i campi di battaglia (e sulla sete che invariabilmente tormenta i combattenti con le gole irritate). Insomma a Waterloo, tra grano, vapore e fumo, presto non si vede più niente. Del resto capitava quasi sempre. E i generali dell’epoca, per poter avere un minimo di visibilità e comandare, si piazzavano a cavallo su una collina alle spalle dello schieramento e da lì, come su una scacchiera, spostavano le loro formazioni, facevano intervenire le riserve, cercavano di trovare e sfruttare quello che i tedeschi chiamano lo schwerpunkt, il punto focale della battaglia, dove si decide la giornata. Ma Napoleone ha le emorroidi, sta in sella a fatica (mentre dall’altra parte Wellington cavalca instancabile da un lato all’altro dello schieramento), si sposta in carrozza e conduce in gran parte la battaglia da dietro, seduto su una sedia: a un certo punto i dolori si fanno talmente forti che l’Imperatore è costretto a ricorrere alle cure dei medici, che gli applicano impacchi di acetato di piombo sulla parte infiammata e lo riempiono di laudano (tintura d’oppio).
Il Napoleone di Austerlitz, che a cavallo dall’alto del Pratzen guardava l’attacco degli austro-russi e ne programmava la disfatta, è un ricordo lontano. Quello di Waterloo non «vede» la battaglia, nè fisicamente nè con gli occhi della mente: per tutta la giornata, la sua conduzione tattica appare lenta e non sempre all’altezza della sua fama, la sua presa sulla situazione sembra tutt’altro che salda. Il genio strategico è sempre quello di un tempo e lo dimostra il piano che lo ha portato a Waterloo: prima tenere a bada gli inglesi e battere i prussiani (e ci è quasi riuscito a Ligny, due giorni prima), poi rivolgere tutto il peso dell’esercito contro Wellington e sbaragliarlo. Ma sul campo sta perdendo colpi. Non sarebbe un dramma, se i suoi ufficiali fossero quelli dei trionfi. Ma il capo di Stato maggiore non è più Berthier, l’uomo che aveva il compito di trasformare le parole del genio in piani operativi: è morto il primo giugno cadendo dalla finestra di casa sua, forse incidente, forse suicidio, forse ucciso dai fedeli dei Borboni per impedirgli di riunirsi all’imperatore. Ora al suo posto c’è il maresciallo Soult, che del predecessore non ha nè la competenza nè il carisma. E a comandare i soldati sul campo ci sono il maresciallo Ney, il «coraggioso tra i coraggiosi» ma non un’aquila, e Grouchy, che sta inseguendo i prussiani. O meglio, che crede di inseguirli mentre in realtà il grosso delle loro forze ha fatto un giro e sta tornando verso Waterloo, verso l’ala destra francese.
Così quando, verso le 15,30, Ney decide di impiegare contro gli inglesi, che hanno già respinto tutti gli attacchi della fanteria francese, i cinquemila corazzieri della sua cavalleria pesante, l’imperatore piegato dalle emorroidi è lontano nelle retrovie, non lo sa, forse non se ne rende conto e non lo ferma. Perché la mossa di Ney è un’idiozia: la fanteria attaccata dalla cavalleria si chiudeva in quadrato, formazione che, irta di baionette, era praticamente impenetrabile. I quadrati erano invece molto vulnerabili all’artiglieria. Per riuscire a sfondarli, quindi, bisognava minacciarli con l’artiglieria inmodo che la fanteria fosse costretta ad aprirsi e a rischierarsi in linea: a quel punto la si poteva attaccare con la cavalleria. La mossa di Ney aveva una sola giustificazione: costringere gli artiglieri inglesi ad abbandonare i loro pezzi e a rifugiarsi dentro i quadrati, in modo da conquistare i cannoni, privare i fanti inglesi del loro appoggio di fuoco e portare avanti la propria artiglieria. E Ney, sia pure a costo di gravi perdite, ci riesce.
Ma a questo punto entrano in ballo i chiodi, o meglio la loro mancanza. I cannoni napoleonici erano aggeggi pesanti e robusti, con congegni di puntamento primitivi, difficilissimi da danneggiare. Ma un sistema per metterli fuori uso c’era: si piantava a martellate un chiodo senza capocchia nel focone, il foro che permetteva di dare fuoco alla carica di lancio. Però i corazzieri di Ney non hanno i chiodi: forse nessuno ha pensato a portarli, forse le bisacce che li contengono sono appese alle selle dei cavalli morti che giacciono ovunque. Così non appena la cavalleria si allontana, gli artiglieri inglesi escono dai quadrati e riprendono a sparare. I corazzieri attaccano e riattaccano ma senza concludere niente, se non dissanguarsi e privare l’imperatore di tutte le riserve di cavalleria pesante. Intanto i prussiani stanno arrivando. Gli inglesi contrattaccano. È finita. (www.corriere.it)
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