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IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO

domenica 18 luglio 2010

Scoperto a Roma un nuovo Caravaggio

Scoperto nel quarto centenario della morte dell'artista un nuovo Caravaggio. Il "Martirio di San Lorenzo" rinvenuto a Roma offre l'occasione per analizzare il rapporto del pittore con i gesuiti.
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Quattrocento anni fa, il 18 luglio 1610, moriva sulla spiaggia di Porto Ercole Michelangelo Merisi da Caravaggio, dopo aver trascorso una delle vite artistiche più famose e appassionate, tra il successo raggiunto, l'amicizia di influenti committenti e le ultime fughe disperate nell'Italia meridionale a causa di una condanna per omicidio. L'eccezionalità della sua vita è diventata quasi leggenda, e all'inizio del Novecento addirittura materia di studio per Mariano Patrizi, l'allievo più dotato di Cesare Lombroso, tanto da dedicargli una serie di studi incentrati sul binomio genio e follia.
Ci sarebbero moltissimi modi per ricordare oggi e festeggiare Caravaggio. In questo anno ogni sua opera d'arte è stata analizzata e sviscerata attraverso mostre, articoli e occasioni di vario tipo. Originali, copie, presunti autografi, tutto l'universo dell'artista è diventato notizia mediatica; capolavori e non, sono stati rimessi in gioco per ulteriori considerazioni e dibattiti. Il catalogo delle opere certe è diventato il tema della mostra (alle Scuderie del Quirinale) più visitata a Roma in questi ultimi tempi. Per evitare di entrare in queste querelles caravaggesche, si è scelto di trarre spunto da un quadro rimasto inedito fino ad oggi, il Martirio di san Lorenzo, di proprietà della Compagnia di Gesù. Di certo è un dipinto stilisticamente "impeccabile", però non si vuole ora cadere nel facile tranello di un "Caravaggio a tutti i costi". Saranno ulteriori indagini diagnostiche e un circostanziato approfondimento documentario, stilistico e critico a fornire le risposte. Per rendere omaggio a Caravaggio non interessa tanto ora stabilire una attribuzione certa, ma seguire quelle molteplici fila legate al dipinto che, con sorprendente naturalezza, si stringono intorno ad alcuni aspetti ancora inesplorati della sua vita a Roma.
Che il dipinto sia di grande bellezza è un fatto inequivocabile. Che sia, se non altro, un caravaggesco della primissima ora, risulta alquanto evidente. Notevole è la luce che dal fondo scuro sferza e modella con bagliori improvvisi la superficie dei volumi. L'originalità della posa del santo è sorprendente: all'apparenza quasi irriverente, san Lorenzo appare disteso a pancia in giù sulla graticola con le braccia in avanti, quasi a cercare la salvezza. Invece proprio questo volto giovane, sofferente e disperato mostra quell'umanità presente nel profondo significato teologico del martirio. La dimensione umana, espressa dallo sguardo e dal movimento della testa, tutta tesa in avanti, viene efficacemente comunicata allo spettatore, o meglio al fedele. Questa stessa sensazione si percepisce osservando le opere di Caravaggio per la cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo. Ad esempio, nella prima versione rifiutata della Conversione di san Paolo (ora collezione Odescalchi), il santo istintivamente si copre con le mani gli occhi. L'impatto emotivo d'insieme con il corpo giacente del martire, invece, ricorda il Martirio di san Matteo nella cappella Contarelli, chiesa di San Luigi dei Francesi. Il particolare del braccio e della mano destra di san Lorenzo, inoltre, presenta lo stesso vigore di quelli di Oloferne nella Giuditta e Oloferne a palazzo Barberini. Come contrappunto compositivo, sempre nel quadro di san Lorenzo, vi sono tre personaggi che con crudo realismo fisiognomico e gestuale esaltano il pathos diffuso della scena. La torsione della schiena dell'aguzzino a sinistra, che sta svuotando la cesta con i carboni per la brace, si può accostare addirittura a quella del carnefice nella Decollazione di san Giovanni Battista nella cattedrale a La Valletta, Malta. Né biografie, né fonti caravaggesche nominano però questo soggetto, anche se il pittore affronta altri temi, sempre cruenti, in linea con le scelte religiose del tempo.
Il Martirio di san Lorenzo costituisce, infatti, un chiaro riferimento ai dettami iconografici di evidente matrice gesuitica, non a causa, però, dello specifico tema agiografico del santo diacono Lorenzo, anche se nella chiesa dei gesuiti a Venezia si trova un importante precedente: il famoso dipinto di Tiziano della metà del Cinquecento con una straordinaria soluzione luministica. L'iconografia si ricollega, invece, alla portata teologica del tema del martirio in genere, fortemente diffuso dalla Compagnia di Gesù. Si è, infatti, già da tempo ritenuto possibile che Caravaggio, giunto a Roma nel 1592, abbia avuto modo di conoscere il ciclo dei martiri, all'avanguardia per l'epoca, affrescato da Pomarancio nella chiesa di Santo Stefano Rotondo del collegio Germanico-Ungarico (1583 circa). Il marcato realismo voluto espressamente dai gesuiti, serve a facilitare nei novizi, destinati nelle terre di missione, la comprensione del momento del martirio, trasformando la paura in accettazione del proprio stato, per il tramite della grazia, proprio come avviene nel giovane san Lorenzo. Il coinvolgimento è essenziale. Il racconto della medievale Legenda aurea, fonte base per ogni artista, viene riletto, in seguito ai dettami tridentini, con maggiore attenzione per rendere una rigorosa descrizione dei fatti. Qui la capacità espressiva dell'artista nel mostrare le mani tese del santo forse si manifesta in modo esageratamente realistico per il luogo sacro a cui il dipinto era destinato. Quale cappella dei gesuiti, infatti, avrebbe dovuto ospitarlo? Anche di questo dato non si hanno per ora notizie, lasciando così spazio a qualche ipotesi.
Nella cappella dei martiri o di sant'Andrea al Gesù, Agostino Ciampelli, entrò il 1603 e dipinse sulla parete di sinistra un Martirio di san Lorenzo. Il semplice affresco ritrae il santo con la classica posa delle braccia rivolte verso l'alto, ma l'iconografia riecheggia molto il dipinto qui esaminato, soprattutto nel particolare insolito dell'aguzzino che svuota la cesta. Il patronato era di Salustia Cerrini, moglie di Ottavio Crescenzi, della nobile famiglia romana strettamente collegata alle vicende della committenza a Caravaggio della cappella Contarelli. Questa potente famiglia viene nominata frequentemente dagli studiosi a proposito dei contatti di Caravaggio con i suoi committenti, anche se non si hanno opere dirette da riferirle, né, ad un primo spoglio dei documenti archivistici Serlupi-Crescenzi, si è trovata qualche traccia. Forse i Crescenzi - come esecutori testamentari dei Contarelli - nello stesso tempo in cui trattano con Caravaggio le tele con le scene di san Matteo, possono aver pensato a lui per la loro cappella al Gesù. Poi, però, accantonato il dipinto ottenuto, subentra Ciampelli, che ne mantiene memoria nel suo affresco. Questi, infatti, viene chiamato direttamente dai gesuiti per concludere in maniera tradizionale le decorazioni rimaste vacanti al Gesù e a San Vitale.
Se queste possono fin qui sembrare facili suggestioni, rimane sempre il legame documentario di Caravaggio con i Crescenzi, che a loro volta hanno la cappella al Gesù. Per l'ipotesi di un'eventuale committenza di Caravaggio al Gesù - come tassello finale di questo percorso inesplorato - si aggiunge ora una nuova riflessione sul famoso processo del 1603, causato dal pittore Giovanni Baglione contro Caravaggio, Orazio Gentileschi e altri che lo avrebbero diffamato per invidia, facendo circolare per Roma dei versi satirici. Caravaggio, pur ricevendo già importanti committenze religiose, avrebbe voluto per sé quella ricevuta da Baglione: la pala d'altare del transetto destro della chiesa del Gesù, dedicato all'epoca alla Resurrezione di Gesù (attuale Cappella di san Francesco Saverio). Dalle vive parole di Caravaggio, trascritte nel verbale del processo (13 settembre 1603), si scopre così che egli conosce bene sia la chiesa sia la pittura di Baglione: "l'ho vista altre volte con l'occasione d'andare al Giesù, ma non me ne ricordo se c'era con me altri pittori". Del perché di queste ripetute visite alla chiesa non si ha riscontro, forse potrebbero essere state motivate anche dai legami con la famiglia Crescenzi. Sempre nel verbale del processo, Caravaggio fornisce un'ulteriore informazione di natura stilistica sul dipinto di Baglione: "Quella pittura a me non me piace perché è goffa (...) e a nessuno ha piaciuto". Più avanti invece dice che un vero pittore si può definire un "valent'huomo (...) perché sa dipingere bene e imitare bene le cose naturali". Ecco, in questa sintesi spontanea di concetti si trova la spiegazione più sincera dell'arte di Caravaggio: è giusto accettare pure il soggetto più esageratamente realistico e simile alla natura, come farà lui stesso ritraendo anche i piedi sporchi di personaggi in primo piano (Madonna di Loreto nella cappella Cavalletti, chiesa di Sant'Agostino a Roma), purché però sia dipinto bene e non in maniera sbagliata tanto da essere considerato da tutti "goffa". (Lydia Salviucci Insolera - L'Osservatore Romano)
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Individuata al civico 22 del vicolo del Divino Amore a Campo Marzio la casa romana di Michelangelo Merisi. L'inquilino che rompeva i soffitti.

Giunto a Roma verso il 1592 e dopo alcuni anni di nera miseria, Caravaggio fu accolto, come è noto, dal cardinale Del Monte in Palazzo Madama dal 1595 al 1601 circa. Dopo il successo e la fama a seguito dei capolavori nella cappella Contarelli (in San Luigi dei Francesi) e nella cappella Cerasi (in Santa Maria del Popolo), e in circostanze che ancora precisamente sfuggono, si trasferì - 1602-1603 circa - probabilmente presso i fratelli Mattei. Nel 1603 prese in affitto per conto proprio fino al 1605 una casa nel vicolo di San Biagio, come si chiamava all'epoca l'attuale vicolo del Divino Amore che oggi congiunge piazza Borghese e via dei Prefetti, in Campo Marzio.
Individuare con precisione questa casa mantiene una sua importanza non solo come mero dato biografico, ma perché il pittore dopo due anni fu accusato dalla proprietaria, Prudenzia Bruni, di aver rotto un "suffitto": e su questa semplice notizia si è costruita, negli ultimi decenni, una teoria secondo la quale Caravaggio andava rompendo i soffitti delle case per una sorta di "prassi pittorica": il che è ancora tutto da dimostrare.
Sulla scorta di una segnalazione del Bousquet del 1953, Marini nel 1981, in Antologia di Belle Arti, puntualizzò le ragioni che suggerivano di ritenere che la casa fosse situata in quella stradina, ipotizzando l'ingresso all'attuale civico 22 come "probabile portone della casa abitata dal Caravaggio nel 1605"; nel 1993, in Artibus et Historiae, Marini ritenne che il pittore risiedesse "presso la casa al n. 41 del vicolo di San Biagio" ma confondendo, a mio avviso, il numero progressivo degli "stati d'anime" (che si riferisce ai "fuochi", ossia ai nuclei familiari dell'intera parrocchia, che nel 1605 erano 116) con quello delle case (che alla medesima data erano in tutto 90).
Nello stesso 1993 Riccardo Bassani e Fiora Bellini pubblicarono il testo (attualmente in restauro) del contratto mediante il quale Caravaggio, il 16 settembre 1603, prendeva in affitto quella casa. In esso è registrata una descrizione abbastanza precisa dell'edificio: infatti Prudenzia Bruni, proprietaria (meglio che "affittacamere") e abitante in una casa "attaccata/contigua", concedeva in affitto a Caravaggio salam cum duabus cameris ut diceret al piano cum suffittis et eorum stantis superioribus, ac cum cantina suptus dictam domum, cortile, et horto in ea existentes nec non cum usu et facultate abuendi aquam a puteo in ipso presente dictae domus existens (sic).
Si trattava dunque di una costruzione "cielo-terra" a due piani, con vani al pianterreno e al primo piano: "al piano" (terra) esistevano una sala (o "stanzone", come si esprime Marini) e due camere cum suffittis (ed è importante notare come si parli qui di "soffitti" per indicare il lato inferiore della copertura degli ambienti al piano terra); si saliva poi al primo piano, dove esistevano eorum stantis superioribus che evidentemente si sovrapponevano alla superficie della sala e delle due camere site "al piano" terra; esisteva poi un cortile interno, al centro del quale era un puteo, provvisto anche di un horto, di entrambi i quali il Caravaggio aveva per contratto il diritto di servirsi; e infine esisteva un porticato interno che si affacciava su detto cortile, dato che il contratto venne stipulato in discoperto domo (sic), e cioè sotto una loggia o loggiato.
Questi essendo i dati, le circostanze e la documentazione, non si sa se può essere stato un rassegnato ma ingannevole scetticismo da parte degli studiosi ad aver impedito finora di proseguire le ricerche nella individuazione precisa della casa nella quale Caravaggio abitò per due anni. Il problema era infatti quello di identificare soprattutto un edificio, o un gruppo di edifici, nell'attuale vicolo del Divino Amore, che potessero ancora custodire tracce di un cortile, di un pozzo, di un portichetto e di un orto. Oggi la casa - a due soli piani - posta al civico 19 appare, nel suo impianto, corrispondente alla descrizione presente nell'atto del 1603, in quanto tutti gli elementi in esso descritti risultano sostanzialmente presenti in tale edificio, come le foto documentano.
Esistono infatti nel vestibolo al piano terra, subito dopo il cancello d'ingresso, a destra, una porta che immette in quella che doveva essere la "sala" (o "stanzone") e le due camere cum suffittis e a sinistra, le scale che portano alle "stanze superiori". Oltrepassato il vestibolo, nell'ampio cortile rettangolare interno esiste l'impianto evidente di un pozzo, la cui canna cilindrica sotterranea deve essere stata riempita e coperta, mentre la "vera" del pozzo deve essere stata abbattuta e al suo posto, al centro della circonferenza della vecchia "vera", è stato impiantato un lampione per l'illuminazione del cortile. E tuttavia, il fatto che nel cortile vi fosse originariamente un pozzo sembra testimoniato ictu oculi dal superstite disegno in travertino della circonferenza centrale (corrispondente all'antica "vera"), nonché dalle quattro diagonali che da essa si dipartono fino ai quattro angoli principali del cortile, dove esistono ancora, e sono perfettamente conservate e funzionanti, le quattro caditoie necessarie per convogliare l'acqua piovana nella cisterna sotterranea e quindi nel pozzo medesimo: le leggere pendenze della pavimentazione sagomata in selci del cortile, inclinanti verso le quattro caditoie e con il cerchio centrale a un livello leggermente più sollevato, testimoniano dell'antico impianto del pozzo. Sul fondo del cortile esiste, distinto da un muretto, uno spazio che attualmente risulta florido di piante, arbusti ed alberelli di modesta altezza ma che non smentisce la probabile antica destinazione a orto di quella parte del cortile.
Infine, rivolgendo dal cortile lo sguardo indietro, verso l'accesso che dal vestibolo immette nel cortile, emerge in tutta la sua nitidezza l'antico portichetto su due ordini (al piano terra e al primo piano) che corrisponde esattamente al discoperto domo nel quale il contratto di affitto fu stipulato: tale portichetto, della profondità di circa un metro e mezzo, corre lungo tutto il lato interno della casa (in linea parallela alla facciata sul fronte del vicolo), ed esso probabilmente - ma questo lo diranno gli architetti - si continuava una volta lungo il lato sinistro del cortile stesso, forse in contiguità con la casa in cui abitava la proprietaria Prudenzia Bruni. Il portichetto, impiantato su quattro robuste colonne o pilastri quadrati, regge poi un secondo ordine di colonne ugualmente quadrate, ma più leggere, che costituiscono il loggiato delle stanze al primo piano, limitato da ringhiere che affacciano sul cortile.
Pare difficile negare che proprio questo edificio a un piano sia esattamente la casa abitata dal Caravaggio in quei due anni dal 1603 al 1605: in ogni caso a ulteriori accertamenti, di natura architettonica e storico-archivistico-catastale, sono affidati i riscontri e le verifiche necessari per dilucidare ogni eventuale residuo dubbio.
E tuttavia, come si può comprendere, forse il ritrovamento preciso della casa abitata dal Caravaggio non si limita a essere un mero dettaglio cronachistico-biografico, dato che investe anche problematiche relative alla sua tecnica pittorica e alla sua poetica (specie per l'uso delle fonti di luce): e, di questo, si dovrà ancora discutere. (Pietro Caiazza - L'Osservatore Romano)

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