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Scusate se parlo tanto di me senza essere Cesare Zavattini. Siccome però vengo tirato in ballo ogni due per tre in quanto dirigo Il Giornale della dissacrata famiglia e vengo accusato di varie nefandezze perché non la penso come lorsignori, spero mi sia perdonata la vanità di prendermi sul serio.Ancora prima di rimettere piede nell’ufficio che fu di Indro Montanelli, molti colleghi cominciarono a chiedersi perché lasciassi Libero. La mia uscita dal foglio che avevo fondato fu considerata un sacrilegio, un tradimento che poteva giustificarsi soltanto così: Silvio Berlusconi ha riempito Feltri di denaro e lui non ha resistito al tintinnio delle monete, a costo di apparire ciò che è, un mercenario. Qualcuno azzardò addirittura la somma incassata: 15 milioni di euro. Dato che di norma si crede solamente alle balle, questa passò subito quale verità accertata. Chiamato a commentarla ci scherzai su confermando: sì, ho intascato quei milioni dal Cavaliere che, in effetti, per recuperarli ha dovuto vendere Kakà.
Mi era sembrato il modo migliore per seppellire la fola con una risata. Niente da fare. Ormai sono per tutti il pennivendolo più ricco del mondo.
Alcuni giorni dopo il mio insediamento, ebbi il documento di condanna del direttore di Avvenire, Dino Boffo, e ne ricavai alcuni servizi. Apriti cielo. L’Italia mediatica, mentre i lettori applaudivano perché avevamo svelato una storiaccia che la giustizia e i vescovi avevano celato per evitare uno scandalo, mi rimproverò di killeraggio. E per una settimana fui dipinto dalle tv e dai quotidiani quale braccio armato del premier. Il fatto che a causa mia Berlusconi avesse dovuto sospendere l’incontro con il cardinale Tarcisio Bertone (fissato il giorno stesso in cui scoppiò la bomba Boffo) fu scartato quale prova che non gli avevo fatto un favore ma un dispetto. Vabbè, transeat. Poiché al coro degli indignati si aggiunse la voce di Gianfranco Fini, replicai raccontando due o tre cose che sapevo di lui. In sintesi scrissi: se il presidente della Camera è osannato dalla sinistra o c’è qualcosa che non va in lui o c’è qualcosa che non va nella sinistra. Anziché rispondere alle mie osservazioni, Fini mi querelò e suggerì l’idea molto democratica di licenziarmi, a dimostrazione che il despota ha perso la camicia nera ma non il manganello. Inutile dire che, anche in questo caso, io ero il sicario e Berlusconi il committente.
Fin qui è niente. Rischi del mestiere. Il bello è venuto negli ultimi giorni, i giorni dei trans e di Piero Marrazzo. Una vicenda di cui non sapevo un’acca; nemmeno ricordavo che in luglio due croniste mi avevano detto al telefono: interessa un documento dei vizietti del governatore del Lazio? Secondo le giornaliste avrei risposto negativamente, trattandosi di robaccia. E in questa risposta mi riconosco benché non rammenti di averla data.
Nonostante tutto, stando alla sinistra, avrei tramato e pescato nel torbido per incastrare Marrazzo con la complicità di Berlusconi, di Alfonso Signorini (direttore di Chi) e altri con i quali non ho mai parlato di filmati né di trans o altro.
Pazienza. Alcuni mi hanno interrogato: come ci si sente nei panni del killer? A proprio agio, più che in quelli di vittima nei quali tentano di infilarmi. (Tratto da: Panorama.it)
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